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Questo articolo è stato pubblicato il 24 luglio 2012 alle ore 06:40.

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Il Free Syrian Army, l'Esercito libero siriano (Els), soltanto un mese fa appariva più come un esercito mediatico che reale. Nessuno nelle piazze di Homs e Hama menzionava mai il nome del comandante, il colonnello Riaad Al Assaad. Il colonello Al Assaad, che vive sotto scorta dei turchi, era stato persino smentito clamorosamente dai comitati locali della guerriglia che avevano respinto il cessate il fuoco proposto dall'inviato dell'Onu Kofi Annan.
Questo esercito male equipaggiato e scarsamente addestrato una settimana fa è diventato protagonista di un'offensiva che poteva risultare fatale al regime. Che cosa è accaduto? Le armi, gli uomini e i soldi, sembrano i tre fattori di questa ascesa che ha messo con le spalle al muro le forze armate siriane mentre la comunità internazionale, Stati Uniti e Israele in testa, sta attuando un monitoraggio spasmodico degli eventi e delle armi chimiche. L'allarme internazionale è scattato ieri quando Damasco ha dichiarato che l'arsenale chimico verrebbe utilizzato «solo contro un nemico esterno». Se Bashar spostasse le armi in Libano o in Iran una mossa del genere sarebbe fatale: la fine del regime arriverebbe forse più rapidamente di qualunque offensiva della guerriglia.
Tornando alla all'esercito libero siriano, la versione ufficiale della storia è quella del portavoce a Parigi del comando congiunto tra l'Esl e la guerriglia dell'interno. «I giorni di Bashar Assad sono contati - sostiene Fahad al Masri - al termine del Ramadan, il 20 agosto, potremo celebrare insieme la fine del digiuno e anche quella di Assad». Ma al di là delle dichiarazioni enfatiche è stato sorprendente che dopo avere annunciato l'Operazione Vulcano - l'attacco al cuore del potere - la guerriglia fosse in grado di colpire come mai era accaduto prima in un conflitto a bassa intensità.
«Abbiamo deciso di agire senza ascoltare le gerarchie all'estero la cui influenza non va al di là dei campi profughi in Turchia. Chi vuole diventare un capo deve stare sul terreno» ha affermato Al Masri a Le Monde, con un'allusione pungente e non troppo velata al Colonnello Riad Al Assaad.
Decisivo, secondo l'Esercito di liberazione, è stato il raggruppamento di dieci consigli militari regionali in un comitato collegiale che ha riorganizzato la strategia: «Le varie Katibas, le Brigate, hanno capito che dovevano unire le forze non farsi concorrenza».
Gli attacchi in simultanea, che hanno preceduto di un giorno l'attentato ai vertici militari, sono stati resi possibili dall'afflusso di centinaia di combattenti da Sud, dalla provincia di Deraa: secondo fonti della sicurezza di Damasco all'operazione Vulcano avrebbero partecipato 6mila uomini. Sono comparse nuove armi: le immagini dei thank di fabbricazione russa carbonizzati nelle strade ci dicono in maniera abbastanza esplicita che la guerriglia ha in mano razzi anti-carro efficaci.
Del resto è stata annunciata la costituzione di un fondo per l'opposizione da 300 milioni di dollari con il sostegno delle petromonarchie del Golfo. Il denaro del Qatar e dell'Arabia Saudita ha accelerato l'arrivo di armi dalla frontiera turca dove Ankara ha abbandonato ogni remora nell'appoggiare la guerriglia: le operazioni si sono intensificate dopo l'incidente del 22 giugno scorso quando l'anti-aerea siriana ha abbattuto un caccia turco.
Anche il fenomeno delle diserzioni ha avuto il suo peso, alimentato dai finanziamenti del Qatar che insieme alla Turchia ospita diversi generali e qualche diplomatico.
Quello che emerge nei notiziari dalla Siria è importante ma forse lo è ancora di più quanto avviene sotto la traccia sanguinosa di questa guerra, scivolata verso una deriva settaria ed etnica, diventata il terreno di scontro gepolitico delle potenze globali e regionali.
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