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Questo articolo è stato pubblicato il 29 luglio 2012 alle ore 14:51.

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ROMA - Come una tela di Penelope che si fa e si disfa nel giro di poche ore, la legge elettorale continua a tenere occupate le giornate della politica italiana senza tuttavia arrivare ad un punto di sintesi. E la giornata di ieri ha segnato certamente cattivo tempo. L'annuncio del Pdl di procedere con la presentazione di una propria proposta nel comitato ristretto della commissione Affari costituzionali per poi arrivare alla votazione sui punti non condivisi ha provocato l'alzata di scudi di tutto il Pd. Lapidario Pier Luigi Bersani: «Il Pdl sulla legge elettorale oscilla tra pratiche dilatorie oramai estenuanti e la suggestione di un colpo di mano in Parlamento. Un colpo di mano sarebbe un atto di rottura irrimediabile».

La proposta che il Pdl si appresta a presentare è un sistema proporzionale con sbarramento al 5% e clausola salva-Lega, premio di governabilità tra il 10 e il 15% al primo partito, scelta degli eletti per il 30% con liste bloccate e per il 70% con le preferenze.

Sui punti controversi, ossia le preferenze alle quali il Pd preferisce i collegi uninominali e il premio di governabilità che il Pd vorrebbe alla coalizione e non solo al primo partito, per il Pdl deve pronunciarsi direttamente l'Aula. Ed è proprio questa ventilata votazione senza preventivo accordo politico a far insospettire e infuriare il Pd. In Senato infatti Pdl e Lega hanno la maggioranza, come è stato dimostrato con l'approvazione del semipresidenzialismo e del Senato federale nonostante la contrarietà di Pd e Udc. Nel mirino finisce anche il presidente azzurro del Senato Renato Schifani, che venerdì aveva evocato proprio la possibilità di fare la riforma elettorale a maggioranza. «Schifani dovrebbe astenersi – è l'accusa del Pd per bocca di Luigi Zanda – dall'invocare ipotesi di maggioranza su leggi delicatissime come quella che fissa le regole del voto democratico». La soluzione estrema di una riforma del Porcellum votata a maggioranza era del resto stata prospettata dallo stesso Capo dello Stato, certamente con lo scopo di stimolare il confronto e non come auspicio. Ieri Schifani ha dunque precisato di essersi messo «nel solco di una autorevole precisazione del capo dello Stato» osservando che «teoricamente la nuova legge elettorale potrebbe anche essere votata a maggioranza».

In realtà la bandiera delle preferenze, care all'anima ex aennina del Pdl, è stata issata da Silvio Berlusconi come arma per la trattativa. Quello che davvero interessa al Cavaliere è la natura del premio, che nella sua ottica deve essere al solo primo partito e non alla coalizione, in modo da non regalare le chiavi di Palazzo Chigi a Bersani e ai suoi alleati. Ma sul premio il Pd ha già fatto capire di essere disposto a cedere se a sua volta il Pdl cederà sulle preferenze in favore dei collegi uninominali. Le basi per un accordo, insomma, già ci sono, e la scorsa settimana era quasi sul punto di essere siglato. Il punto vero sono i tempi: approvare la riforma entro agosto in Senato significherebbe spianare la strada alla possibilità di elezioni anticipate. Ed è proprio quello che il Cavaliere vorrebbe evitare, in questo supportato dalla componente ex aennina del partito. Non a caso ieri Maurizio Gasparri tuonava contro le ipotesi di una lista Monti in caso di elezioni a novembre: «Monti è stato chiaro nell'escludere usi politico-elettorali della sua persona e del suo nome, ma è bene che lo sia ancora di più. Una lista Monti mette a rischio il sostegno del Pdl».

La situazione è ad ogni modo fluida, e non è escluso che la prossima settimana, forse già martedì, un incontro Alfano-Bersani–Casini possa sbloccare la trattativa. Anche se da Largo del Nazareno fanno notare che il «vero indeciso» è Berlusconi. E senza di lui l'accordo non si fa.

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