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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2012 alle ore 06:39.

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A North Block, il ministero delle Finanze dove aveva iniziato la sua scalata all'India e l'India all'economia mondiale, dicevano che "il vecchio" era tornato quello di un tempo: determinato e riformista. Rubando una citazione a Keynes, Manmohan Singh aveva esortato i suoi a far rivivere «lo spirito animale dell'economia», perso per strada in questi ultimi due anni in India.
Forse per raggiungere l'obiettivo non bastava assumere l'interim delle Finanze, dopo le dimissioni del ministro Pranab Mukherjee, e poi affidarlo a Palaniappan Chidambaram, già suo successore 15 anni fa e uomo di assoluta fiducia. Né bastava ricreare con pochi volti nuovi la vecchia squadra, il "dream team" che a partire dal 1991 aveva iniziato la stagione delle riforme (Montek Singh, Chakravarthy Rangarajan, Pulok Chatterjii e, appunto, Chidambaram); né bastava incitare i mandarini del ministero: «Mandiamo immediatamente il segnale che si riprende a fare business. Dobbiamo farlo ora, è quello che il mondo si aspetta da noi».
Il premier indiano e Chidambaram sono di fronte a statistiche economiche pessime e a ostacoli monumentali. Il dato peggiore è la crescita nell'ultimo quarto 2011/12: solo il 5,3%. Inferiore a quella annuale del 6, segnalata pochi mesi prima, quando Mukherjee aveva presentato il suo ultimo Bilancio. Quei tassi non possono finanziare la crescita di un Paese da 1,2 miliardi di abitanti né sostenere la spesa sociale necessaria per un Paese dagli squilibri fortissimi.
Per quanto il duo Manmohan Singh-Chidambaram sia tornato, «è difficile che la situazione possa migliorare fino alle elezioni del 2014. La crescita scenderà molto al di sotto del 5%», sostiene uno studio di Capital Economics. A giugno, per spiegare le ragioni del declassamento del debito a BBB-, Fitch citava «una pericolosa combinazione di crescita lenta e inflazione elevata alle quali si aggiungono, a determinare il clima degli investimenti, sfide strutturali come corruzione e riforme inadeguate».
«Sì, ci sono stati ritardi su alcune leggi cruciali. Ma quando governi una coalizione di partiti e l'elettorato garantisce mandati così spezzettati che limitano il potere dell'esecutivo…», diceva Mukherjee pochi giorni prima di essere silurato. Sembra una giustificazione. È invece una descrizione accurata delle cause del rallentamento economico in India. La crisi globale ha un ruolo relativo. A ogni elezione regionale i partiti locali si rafforzano e il potere centrale si indebolisce, come è accaduto nell'Uttar Pradesh. Sale il tasso di populismo, scende il pragmatismo. Ci sono chief minister, i capi di governo degli Stati, che hanno bloccato accordi commerciali internazionali già firmati, paralizzato infrastrutture, impedito riforme.
I risultati pratici sono devastanti. Il 12° piano quinquennale che si esaurisce quest'anno prevedeva produzione di energia elettrica per 62.374 megawatt; non saranno più di 32.700. Nel 2010 erano stati firmati contratti per 42.932 km di strade: finora ne sono state costruite per 1.781. Dei 101 giacimenti di gas e petrolio recentemente scoperti, la produzione è iniziata in sei.
Neanche a Manmohan Singh, che 20 anni fa raccolse l'India sull'orlo del fallimento e ora la guida ai G-20, sarà facile realizzare le "riforme di seconda generazione". La revisione della tassa sul reddito, l'apertura agli investimenti stranieri del mercato delle assicurazioni (26% il limite) e dei fondi pensione (49), la liberalizzazione del settore bancario, commerciale e del trasporto aereo, la compensazione per la terra espropriata per progetti industriali pubblici, privati e misti.
Gli ostacoli non sono solo i 10 partiti soci del Congress nella coalizione di governo, l'Alleanza progressista unita; né i chief minister ostili. Manmohan Singh deve guardarsi dal suo stesso partito. I dati sulla crescita hanno costretto Sonia Gandhi a garantire un appoggio che da tempo Singh non aveva così chiaramente. Sonia è sostenitrice di una visione più populista delle riforme. «Il maggior finanziamento dei programmi sociali è possibile solo se c'è un alto tasso di crescita - chiarisce ora Manish Tewari, portavoce del Congress, cioè di Sonia -. Il partito è impegnato nelle riforme e nella modernizzazione dell'economia». Niente riforme, niente crescita, niente politiche sociali. Almeno nel suo partito Manmohan Singh e i resti del "dream team", alle Finanze, non avranno problemi. Per ora. Fra meno di due anni ci saranno nuove elezioni: Manmohan Singh non si ricandiderà; Rahul Gandhi, l'ultimo della stirpe, è incerto dopo aver guidato il Congress nell'Uttar Pradesh alla peggiore delle sconfitte elettorali immaginabili. Crisi economica, crisi globale, crisi politica. Quel tempo che in India sembra senza fine, stringe invece da tutte le direzioni.
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