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Questo articolo è stato pubblicato il 02 agosto 2012 alle ore 08:05.

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La privatizzazione di Mediobanca, la quotazione di Premafin e la sua ramificazione nella galassia di Enrico Cuccia; il salvataggio di Fondiaria e poi i primi attriti con Vincenzo Maranghi; infine la traumatica rottura con Alberto Nagel sulla liquidazione della holding di famiglia: c'è almeno un quarto di secolo di storia finanziaria italiana nel rapporto fra Salvatore Ligresti e l'istituto di Piazzetta Cuccia.

E la parabola stessa di Mediobanca può essere letta attraverso le relazioni con l'ingegnere di Paternò. «Solo opportunismo, nessuna amicizia», ha ripetuto tranchant Cesare Romiti nel suo recentissimo libro di memorie: con Cuccia - l'altro grande siciliano della City milanese, il terzo fu Michele Sindona - tutto sarebbe cominciato e finito negli anni '80, quando il premier Bettino Craxi diede via libera al primo sganciamento di Mediobanca dalle banche Iri, vincendo le resistenze di Romano Prodi. Tra Ligresti e il leader socialista - lui pure meneghino di sangue siciliano - il filo era robusto e di vecchia data.
Di imprenditori-partner Mediobanca ne ha avuti molti: della famiglia Agnelli ai Pirelli e ai Pesenti, da Carlo De Benedetti ai Ferrero giù giù fino ai Benetton e a Silvio Berlusconi. Con ciascuna famiglia-azienda Cuccia, Maranghi e poi Renato Pagliaro e Nagel – presidente e amministratore delegato in carica – hanno intrattenuto rapporti complessi.

A Gianni Agnelli Mediobanca impone Romiti prima come amministratore delegato in Fiat e poi addirittura come presidente: e solo Romiti può partecipare al funerale di Cuccia, a metà 2000. Non per questo l'Avvocato, pochi mesi dopo rifiuta l'invito di Maranghi quando lo slargo davanti alla sede dell'istituto viene ribattezzato «Piazzetta Cuccia». Era stato Agnelli in persona, nell'85, a cedere il suo posto da azionista privato in consiglio Mediobanca a Cuccia, che l'Iri non voleva riconfermare nel suo parterre. Il lungo colpo di reni per la privatizzazione di Mediobanca - ultimata nell'88 - comincia lì. Ed è allora che vengono posti anche i primi mattoni di quel 3,83% con cui Premafin è tuttora il primo socio privato italiano dell'istituto. Ma è sempre in quella fine ruggente degli anni '80 che Mediobanca assume il patronage finanziario del gruppo Ligresti, gettando le basi lontane anche dell'ultima impasse: quella che ha visto Piazzetta Cuccia - forse per la prima volta nella sua storia - in difficoltà per i suoi crediti nei confronti di un azionista-partner.
La preziosa presentazione a Craxi non è comunque l'unico regalo di Ligresti a Cuccia. La scalata alla Sai (invano contestata da Raffaele Ursini, che aveva dovuto disfarsene durante il dissesto Liquigas) ha consentito a Ligresti di installarsi in Euralux: la misteriosa cassaforte che custodiva un 5% strategico delle Generali, a cemento dell'alleanza fra Mediobanca e la Lazard di Antoine Bernheim. Cuccia, in ogni caso, ha motivi speciali per inventare Premafin (una holding quotata in Piazza Affari a 14 volte gli utili) al fine di dare stabilità finanziaria e reputazione a un gruppo cresciuto tumultosamente.

Il padrone della Sai è anzitutto un grande costruttore-immobiliarista nella Milano dei sindaci Tognoli e Pillitteri e viene via via accettato ("Mister cinque per cento) in azionariati-salotto come quelli di Pirelli, Italmobiliare, Cir, Poligrafici o della stess Agricola Finanziaria di Raul Gardini. È però anche indebitato con le banche per più di mille miliardi dell'epoca ed è un osservato speciale della magistratura: durante Tangentopoli il pm Antonio Di Pietro gli impone addirittura cinque mesi di custodia cautelare per il caso Eni-Sai.
L'aggancio con Mediobanca, tuttavia, resiste decisivo e consente al gruppo Ligresti di attraversare la dura congiuntura finanziaria di metà anni '90. Nel '98 il 17% di Sai è in pegno alle banche, ma tre anni dopo è alla compagnia torinese che Mediobanca guarda nelle ore concitate dell'Opa Fiat-Edf su Montedison. Fondiaria - gioiello di Montedison sempre ambito da Cuccia - viene messa in salvo da Maranghi con un'acrobazia finanziaria che costa però molto sia a Mediobanca che a Ligresti: un'indagine Antitrust e la sterilizzazione della quota nel frattempo rilevata da FonSai nelle Generali.

Maranghi è sempre meno soddisfatto (anche per iscritto) di come la famiglia Ligresti gestisce FonSai e riesce a imporre Bondi come "commissario", ma solo per breve tempo. Ligresti si è intanto avvicinato a Cesare Geronzi, diventando socio di Capitalia. E quando in Mediobanca si consuma il traumatico showdown con Maranghi - che aveva tentato l'arrocco con i soci francesi capitanati da Vincent Bolloré - Ligresti è tacitamente a fianco di Geronzi: mediatore e garante fra la Banca d'Italia di Antonio Fazio, banche e fondazioni italiane, azionisti esteri, manager interni promossi in nome della continuità. È in questo passaggio che matura la rottura del legame originario fra Ligresti e Via Filodrammatici. Ed è ancora qui che, inevitabilmente, la nuova Mediobanca di Pagliaro e Nagel comincia a perdere una presa ferma sul "dossier Ligresti": dal 2007 alla presidenza di Mediobanca c'è Geronzi e Ligresti - dopo la fusione con Capitalia - è nel consiglio di UniCredit, divenuto azionista strategico di Piazzetta Cuccia. Dopo lo scontro sulla governance in Mediobanca, Geronzi si trasferisce, per meno di un anno in Generali. Nel frattempo la storia è quasi ancora cronaca: la crisi finale di FonSai e Premafin diventa una crisi che il vertice di Mediobanca non aveva mai affrontato in 66 anni.