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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2012 alle ore 06:37.

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DAMASCO. Dal nostro inviato
Con i suoi mosaici raffinati che ricordano quelli di Isfahan l'ambasciata iraniana a Mezzè, nel cuore di Damasco, è uno dei simboli della presenza di Teheran in Siria, uno stato laico che da oltre 30 anni è legato da un'insolita alleanza con la repubblica islamica degli ayatollah. Ed è proprio questo patto d'acciaio che è venuto a ribadire Said Jalili, capo del Consiglio di sicurezza nazionale iraniano, uno degli uomini più vicini alla Guida suprema Ali Khamenei: la Siria è una "linea rossa" invalicabile per l'Iran, un bastione da difendere a ogni costo, come gli Hezbollah libanesi e Hamas in Palestina.
All'indomani della defezione clamorosa del suo primo ministro Riad Hijab e di preoccupanti segnali di sgretolamento del regime, Bashar Assad è ricomparso in pubblico dopo due settimane di assenza per abbracciare l'iraniano Jalili e ribadire la volontà del Governo di «ripulire il Paese dai terroristi»: la Siria del clan alauita al potere è isolata e nella morsa delle sanzioni, l'Iran sciita, sotto embargo internazionale per il dossier nucleare, se perde Damasco deve affrontare quasi senza alleati il fronte sunnita costituito dalla Turchia e dalle monarchie arabe del Golfo che insieme all'Occidente sostengono gli insorti.
È questa la posta in gioco della guerra civile siriana, il motivo di fondo di un conflitto che "per procura" può cambiare la geopolitica dal Levante arabo al Golfo del petrolio. «La Siria è una parte essenziale dell'"asse della resistenza" e non permetteremo mai che venga spezzato», ha detto ad Assad il consigliere di Khamenei che poi ha attaccato frontalmente gli Stati Uniti. «Siamo con la Siria perché l'America appoggia il terrorismo e il terrorismo non è democrazia», ha chiosato Jalili, durante una lunga conferenza stampa all'ambasciata di Teheran, con un sillogismo tipico della filosofia politica iraniana. Una sentenza fuori tempo massimo per Washington che secondo le dichiarazioni del segretario di Stato Hillary Clinton si preoccupa soprattutto del «dopo Assad».
Nella crisi siriana la ribalta è stata occupata a lungo dalla Russia e dai veti di Mosca al Consiglio di sicurezza mentre gli iraniani apparivano in attesa delle mosse della diplomazia internazionale: Kofi Annan voleva coinvolgerli nella mediazione di Ginevra del luglio scorso ma si era scontrato con l'opposizione degli Stati Uniti. Teheran ora è scesa in campo scatenando una sorta di offensiva diplomatica: oltre a Jalili a Damasco, ieri ha inviato in Turchia il ministro degli Esteri Ali Akbar Salehi per chiedere ad Ankara un passo per la liberazione dei pellegrini iraniani sequestrati a Damasco dalla guerriglia, che li accusa di essere pasdaran, guardiani della rivoluzione. Tre sono già stati uccisi in circostanze da chiarire e anche gli altri sono in pericolo. «I responsabili delle loro vite sono gli americani che appoggiano la guerriglia», sostengono a Teheran. Gli iraniani hanno anche convocato per domani una riunione "informale" sulla Siria e la prossima settimana parteciperanno a un vertice dedicato a Damasco dall'Organizzazione della conferenza islamica.
Che cosa lega Assad all'Iran? L'estate scorsa, quando già era esplosa la guerriglia, rifiutò una montagna di denaro dei Paesi del Golfo che gli chiedevano di rompere questa alleanza. Oltre ai motivi tattici e strategici la ragione profonda risale agli anni 70 quando gli ayatollah di origine iraniana come il libanese Imam Musa Sadr dichiararono che gli alauiti appartenevano al ramo sciita dell'Islam: fu la prima legittimazione religiosa all'ascesa politica di una setta che la maggioranza dei sunniti considera dei miscredenti.
Oltre il muro che protegge i mosaici persiani di Mezzé la vita di Damasco ieri sembrava quasi ignorare la tragedia che sta vivendo questo Paese. Nel centro della capitale le misure di sicurezza non sono quelle che ci si aspetta da un regime assediato dalla guerriglia e dagli attentati: davanti al ministero dell'Infomazione non c'è una guardia armata e alla reception si passa senza neppure mostrare un documento.
Ma è soltanto un'apparenza di normalità. Verso il tramonto le auto corrono veloci e le strade si svuotano: è un Ramadan cupo e carico di tensione quello di Damasco. Hoda, una giovane palestinese che vive nel quartiere di Tadamoun, dice: «Per sette notti non ho chiuso occhio per paura dei missili e delle esplosioni: intorno alla mia casa interi edifici dove erano asserragliati i ribelli sono stati rasi al suolo». In Siria vivono 500mila palestinesi, profughi ormai da tre generazioni: Hoda è di nazionalità giordana, non ha un carta d'identità ufficiale ma mostra un documento con il timbro di uno stato palestinese che non esiste ancora. E tra qualche tempo anche la Siria che l'ha accolta potrebbe non essere più il Paese che ha conosciuto finora.
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