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Questo articolo è stato pubblicato il 15 agosto 2012 alle ore 06:38.

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Quando un Paese sigillato per 40 anni come la Siria entra nel mirino occidentale c'è sempre la speranza che dall'interno qualcuno ci illumini sul suo destino. L'ex primo ministro Riad Hijab ha appena detto che il regime di Bashar Assad sta «crollando dal punto di vista spirituale e finanziario» e sebbene intensifichi l'offensiva militare attualmente «non controlla più del 30% del territorio».

Eppure la sensazione è un po' diversa: la Siria si sfalda ma non è ancora franata, al contrario di quanto sembra di capire dalle dichiarazioni di Hijab, rilasciate in una conferenza stampa ad Amman prima di approdare nella monarchia del Qatar, tra i maggiori sponsor della rivolta e delle defezioni nella compagine di Damasco.
Riad Hijab si proclama «soldato della rivoluzione», ma come scriveva qualche giorno fa sull'Independent Robert Fisk è difficile immaginare il pingue ex primo ministro imbracciare il mitragliatore e salire con slancio bellicoso sulle barricate di Aleppo.
Sulle crepe, anche profonde, del sistema non ci sono dubbi: lo ha dimostrato l'attentato di luglio che ha fatto fuori i capi della sicurezza e forse ferito gravemente - secondo fonti russe - Maher, il fratello di Assad comandante della temuta Quarta brigata, corpo di élite della repressione. Ad Aleppo le truppe annaspano: mancano un'organizzazione tattica e i mezzi per costrastare la guerriglia, con i comandi che, a corto di uomini, per risparmiare perdite si affidano ai carri armati, devastanti sui civili ma non così efficaci contro gli sniper degli insorti.

La fuga di Hijab è stata un colpo più duro per il partito Baath, di cui era un rappresentante, che non per i vertici: l'ex premier, un sunnita, non apparteneva alla cerchia ristretta della minoranza alauita al potere. Riad Hijab, secondo le sue dichiarazioni, aveva accettato due mesi fa la promozione da ministro a premier soltanto perché avevano minacciato di giustiziarlo. Un'affermazione poco credibile. È difficile che Assad nominasse premier uno di cui non si fidava per tenergli la pistola puntata alla tempia. In realtà Hijab aveva bisogno di giustificare la fuga e riciclarsi di fronte ai rivoluzionari e ai finanziatori del Qatar.
Secondo gli americani, che stanno incoraggiando i dirigenti a defezionare, il regime «sta per implodere». Un evento dato per imminente, al punto che la stampa americana analizza con insistenza le possibili conseguenze della caduta di Assad. Si teme il caos perché è ancora complicato individuare le tendenze prevalenti tra i ribelli. Il segretario di Stato americano, Hillary Clinton, qualche giorno fa a Istanbul ha dichiarato di volere assumere informazioni dettagliate sull'opposizione armata: «Dobbiamo sapere a chi dare i soldi e a chi no». Meglio tardi che mai, prima di finire in una spirale di stampo iracheno o libanese.

In realtà la Turchia, che addestra l'Esercito libero siriano e costituisce la principale retrovia della guerriglia, vuole Washington al suo fianco. Ai confini con Siria e Iraq sta per addensarsi come una tempesta la questione curda, un'altra delle nazioni negate del Medio Oriente.
Ankara, lanciata nell'appoggio alla rivolta, sospetta che le rivendicazioni dei curdi siriani, ai quali Damasco ha lasciato astutamente mano libera, si possano saldare con quelle del Pkk fondato da Abdullah Ocalan impegnato da 30 anni in un guerriglia sanguinosa con la Turchia.
Nel gioco rientra la regione autonoma del Kurdistan iracheno e il suo leader Massud Barzani, mediatore sperimentato su più tavoli, che sostiene i curdi siriani con soldi e armi. Anche il Governo centrale di Baghdad, diventato il secondo produttore dell'Opec, è preoccupato dagli sviluppi e da una secessione curda: al punto che minaccia - come è appena avvenuto con la Total - di espellere le compagnie che firmano contratti petroliferi con Erbil.

La disgregazione della Siria può rivelarsi una Jugoslavia araba, dai confini turchi, fino all'Iraq e al Libano. La fretta di liquidare il regime non è accompagnata da piani per il dopo e neppure da un'analisi sulle implicazioni di un'eventuale no fly zone, reclamata con insistenza da Bernard Henry Levy, l'intellettuale che spinse Sarkozy a bombardare Bengasi. Per questo ci si affida a operazioni mediatiche come quella di Hijab, cugino del vicepresidente Faruk al Shara (dettaglio questo non irrilevante): accadde anche a Baghdad nel 2003, quando l'improbabile e dimenticato Ahmad Chalabi venne indicato allora da una copertina di Time come il George Washington dell'Iraq.

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