Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2012 alle ore 15:50.

My24

«Teppismo a sfondo religioso». Effettivamente il capo d'accusa che oggi a Mosca ha portato alla condanna a due anni di carcere delle Pussy Riot, trio punk al femminile che il 21 febbraio scorso s'è reso protagonista di un caustico happening anti-Putin nientemeno che all'interno della Cattedrale del Cristo Salvatore, non ha precedenti nella pur vasta casistica di problemi del rock con la giustizia.

Secondo la corte moscovita presieduta da Marina Syrova le tre ragazze hanno suonato una canzone «blasfema, insultante» nella santissima location, commettendo una «grave violazione dell'ordine pubblico, disturbando la quiete dei cittadini e insultando profondamente le convinzioni del fedeli ortodossi», si legge nella sentenza. Nadezhda Tolokonnikova, 22 anni, Ekaterina Samutsevich, 30 anni, e Maria Alekhina, 24 anni, cantarono infatti incappucciate e con chitarre elettriche e amplificatori, una «preghiera punk» nella cattedrale moscovita chiedendo alla Madonna di «cacciare Putin» dal potere. Secondo i giudici il testo «esprimeva chiaramente l'odio basato su affiliazione religiosa» e l'obiettivo delle tre ragazze, mosse da «odio religioso» era quello di raggiungere «il circolo più vasto possibile di fedeli dando pubblicità» al loro gesto. E dunque il futuro delle tre ragazze, per le quali si erano già mobilitati da Madonna a Paul McCartney e che adesso ispireranno manifestazioni di solidarietà in mezzo mondo, passerà attraverso i tre anni di detenzione richiesti dalla pubblica accusa.

Il senso del giudice per la musica popolare. Una sentenza di un certo peso, almeno agli occhi della platea occidentale sempre pronta a balzare in piedi e puntare l'indice contro ogni negazione/limitazione del diritto d'espressione in Paesi che tanto democratici non sono. Una condanna che com'è ovvio riporta alla mente quello che da quasi settant'anni è il tormentato rapporto tra la giustizia e la musica popolare. La prima stella a finire in manette fu addirittura «the Voice»: Frank Sinatra venne infatti arrestato nel '38 in New Jersey con l'accusa di adulterio. Altri tempi, è vero.

Drugs don't work. Negli anni Sessanta e Settanta si finirà invece nei guai con la legge soprattutto per questioni legate al possesso o allo spaccio di sostanze stupefacenti. Capitò nel '65 al fuorilegge del country Johnny Cash, beccato alla dogana con la custodia dell'inseparabile chitarra acustica imbottita di barbiturici. Se la caverà pagando un'ammenda di mille dollari: God bless America. Epocale fu l'arresto di Mick Jagger e Keith Richards, i gemelli tossici e creativi dei Rolling Stones, datato 1967. Il pop artist inglese Richard Hamilton trasformerà la scena dell'ammanettamento in un quadro intitolato «Swinging London», quasi come se si trattasse del simbolo di quello strabiliante decennio. Curriculum macchiato di droga anche per Jimi Hendrix, sorpreso nel '69 all'aeroporto di Toronto con eroina e hascisc in valigia, per John Lennon, George Harrison e Paul McCartney dei Beatles, David Crosby (per lui condanna a quattro anni di cui uno scontato) nonché per il Duca Bianco David Bowie. Ci si ferma qui ma si potrebbe continuare per ore perché, come direbbe il leader del Verve Richard Ashcroft (per inciso, uno che se ne intende), «Drugs don't work». Almeno se uno vuole dormire sonni tranquilli con la giustizia.

Atti osceni e tentati omicidi. Poi c'è il novero degli artisti finiti in manette per aver «osato troppo» durante un'esibizione. Un po' come le stesse Pussy Riot e, in qualche occasione, anche quel truculento bambinone di Marilyn Manson. Il caso più celebre è quello del leader dei Doors Jim Morrison che, durante il concerto di Miami del ‘69, mostrò le pudenda al pubblico. Processata e assolta per aver insultato dei poliziotti Janis Joplin. Incredibile a dirsi ma persino Jerry Lee Lewis, pioniere del rock and roll negli anni Cinquanta, finì in commissariato: nel '76 lo sorpresero ubriaco e armato di pistola mentre si aggirava intorno a Graceland, la villa di Elvis, forse intento a regolare una volta per tutte la disputa su chi dei due fosse il vero re. Ben più grave il capo d'imputazione gettato nel ‘78 sulle scheletriche spalle del bassista dei Sex Pistols Sid Vicious: per lui l'accusa di aver assassinato la compagna Nancy Spungen. Circostanze mai chiarite fino in fondo, a causa della morte per overdose dell'indagato verificatasi un anno più tardi.

Gli habitué degli studi legali. Ha più volte avuto problemi con la legge il padrino del soul James Brown, per possesso di droga, armi, resistenza a pubblico ufficiale e quella pessima abitudine di alzare le mani sulle proprie compagne. Un paio di arresti per violazione di domicilio e vandalismo per Kurt Cobain, mentre il front leader dei Guns ‘n' Roses Axl Rose ha addirittura collezionato venti ammanettamenti.
Che hanno in comune tutti questi «precedenti giudiziari» con la condanna delle Pussy Riots? Molto diverso è il contesto di riferimento: Stati Uniti e Inghilterra non sono certo la Russia di Vladimir Putin. Forse qui bisognerebbe ricorrere a un paragone estremo: il caso di Victor Jara, il cantautore cileno eliminato nel '73 dai militari del regime di Augusto Pinochet. Che la stella della democrazia ci benedica sempre.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi