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Questo articolo è stato pubblicato il 18 agosto 2012 alle ore 08:13.

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TARANTO. Dal nostro inviato
Taranto sembra di nuovo la città dei peripatetici, i filosofi greci che amavano ragionare tra loro camminando. Tutti passeggiano e rivendicano allo stesso tempo: i giovani, gli operai, gli ambientalisti, i professionisti, persino gli alti gradi di carabinieri e polizia. L'imprinting greco trasuda a ogni angolo di una città. Gli imponenti palazzoni di architettura razionalista e un lungomare sospeso sullo Jonio, in questi giorni immobile come un lago, ne enfatizzano il fascino. Alla fonda ci sono una dozzina di navi mercantili in attesa di attraccare: la Lauritzen, un lunghissimo scafo color ruggine rivolto verso le ciminiere dell'Ilva, è in rada da oltre 24 ore.
I due estremi del lungomare sono popolati dai giardini pubblici del Peripato e, all'opposto, dal liceo classico intitolato a Aristosseno, il filosofo e musicologo tarantino del IV secolo avanti Cristo allievo di Aristotele. Taranto, ieri, sembrava una città ateniese: un passato glorioso e il presente che s'incarica di presentare il conto per gli errori che si sono via via sedimentati in questi anni, come i metalli pesanti in fondo al Mar piccolo.
Nel pieno centro storico, tra via Tommaso d'Aquino e via Cavour, sede della prefettura dove erano rinchiusi chini sulle carte i ministri Corrado Clini e Corrado Passera, è sfilato il corteo dei duemila cittadini che urlano con l'indice alzato al cielo: "Taranto libera, Taranto libera". Un corteo pacifico ma allo stesso tempo carico di rabbia, almeno fino a quando non si è trovato faccia a faccia con lo sbarramento dei carabinieri in tenuta antisommossa e manganelli spianati. Molti dei manifestanti del "Comitato cittadini liberi e pensanti" portano magliette con su scritto: "Taranto, ribellati". Non sono radicali, tanto meno estremisti. "Noi vogliamo vivere" dice un enorme striscione bianco tenuto per quasi mezz'ora di fronte ai caschi neri dei carabinieri. Un altro, firmato dai ragazzi del rione Tamburi, recita: «La salute senza compromessi». Poi parte un coro all'unisono: «Assassini, assassini, assassini». Tra loro ci sono avvocati, commercialisti, bancari, dipendenti di aziende private. Una signora sulla sessantina dice: «Se avessimo avuto degli amministratori meno famelici non saremmo mai arrivati a questo punto». L'avvocato Alessandra Semeraro, giovane penalista, racconta il dolore per un'amica e collega morta a 33 anni di un cancro ai polmoni: «Se n'è andata in sei mesi e non aveva mai fumato una sigaretta in vita sua».
La preoccupazione si tocca con mano. Gli alti gradi di carabinieri e polizia, pure loro a passeggiare fianco a fianco tra via Cavour e piazza Giovanni XXIII, riconoscono la compostezza dei manifestanti e degli operai. Un alto grado dei carabinieri si lascia andare a qualche considerazione: «Questa è una città matura che ora si aspetta soluzioni concrete. La politica? Fino a oggi è stata inconcludente, direi quasi inopportuna».
Di cose inopportune, a Taranto, se ne sono viste troppe. L'elemosiniere dei Riva, Gerolamo Archinà, è una figura chiave di questa commedia umana. Tutti gli tiravano la giacchetta: il sindaco per rifare l'impianto idrico del cimitero di San Brunone, che è proprio attaccato all'acciaieria. Archinà finanzia di buon grado la piccola ma significativa opera. I due presenzieranno all'inaugurazione, immortalati mentre l'acqua scorre copiosa insinuandosi tra colombaie e cappelle di famiglia. Poi tocca all'ex vescovo, che sollecita un intervento per restaurare la facciata della chiesa Gesù divin lavoratore del quartiere Tamburi. Archinà paga senza fiatare: con Cristo di mezzo non si sa mai.
Due mesi fa ad alzare la cornetta è stato il patron del Taranto calcio, la squadra della famiglia D'Addario che nella primavera appena passata lottava nei play off per la promozione in serie B. Mancano all'appello 500mila euro, il presidente è in arretrato con gli stipendi dei calciatori. Stavolta però non c'è Cristo che tenga. Il Taranto peraltro è recidivo: la Lega l'ha sanzionato più volte per inadempimenti di carattere finanziario. Senza i soldi dei Riva la sorte è segnata: retrocesso in Promozione.
L'arrivo di Bruno Ferrante alla presidenza dell'Ilva è l'extrema ratio. L'ex prefetto, annusato il clima, cambia completamente strategia. I Riva si trasformano in protagonisti dello sviluppo locale pronti a vagliare tutti i progetti. Gli anni del piccolo cabotaggio però non si cancellano. Ferrante, salentino purosangue, ex candidato sindaco a Milano ed ex capo di gabinetto dei ministri dell'Interno Giorgio Napolitano e Rosa Russo Iervolino, si presenta in città con questa battuta: «Mia moglie è di Taranto. E ogni volta che torno al cimitero dove riposano i suoi parenti, rimango colpito dagli strati di polvere rosa che ricoprono lapidi, viottoli e cappelle».
È la cipria sputata ogni giorno dalla più grande acciaieria d'Europa, un'azienda strategica di cui nessun Paese oserebbe disfarsi. Difesa con i denti da quasi 12mila operai ben pagati e addestrati. Toccava ai decisori trovare un punto d'intesa (obbligatoriamente al rialzo) tra città e fabbrica. Succede così in tutti luoghi popolati da agglomerati urbani e industrie. A Taranto è andata diversamente. Una telefonata "all'amico Archinà" e gli euro zampillavano come le fontanelle dell'unico cimitero al mondo imbellettato da uno strato di morbida cipria rosa.
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