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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2012 alle ore 13:02.

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Lance Armstrong brinda alla vittoria nel Tour de France edizione '99 (Afp)Lance Armstrong brinda alla vittoria nel Tour de France edizione '99 (Afp)

Sopravissuto a tutto, anche alla morte, quella che un cancro ai testicoli avrebbe potuto causargli quando aveva 25 anni, a migliaia di chilometri che ti tolgono l'ossigeno nella canicola. Lance Armstrong, texano di Plano, si arrende: «Quando è troppo, è troppo». E non sopravvive alle accuse che da anni lo inseguono: mette i piedi a terra («Rinuncio a difendermi, non ne posso più»), ha vinto la Usada, l'Agenzia antidoping americana. Negli annali non sarà più uno dei migliori ciclisti di tutti i tempi con i suoi sette Tour vinti dal 1999 al 2005.

Gli inizi. A 21 anni, nel 1993, è già campione del mondo a Oslo. Una sorpresa, certo, ma il suo fisico - ha un cuore che pompa 34 litri al minuto (la media è 19) e che sotto sforzo non supera i 200 battiti - promette trionfi. E anche la sua voglia di rivalsa contro la vita e di fuga da una famiglia dove liti e musi lunghi erano pane quotidiano.

Il cancro. Nel 1996 si ammala di cancro ai testicoli. Soffre, precipita, rinasce e nel 1998 torna a correre. Ma più della corsa può la voglia di correre contro il male e i malati: fonda la Lance Armstrong Foundation, che ha raccolto più di 300 milioni di dollari, crea il braccialetto giallo Livestrong (ne sono stati venduti 70 milioni di esemplari) e non si stanca di ripetere che «questa malattia è stata la più grande fortuna della mia vita». Diventa un totem della vita, prima che delle corse.

Il Tour. A incoronarlo invincibile sono le vittorie ai sette Tour de France dal 1999 al 2005. È così maniaco da correre una sola gara all'anno, il Tour, per vincerne una sola all'anno, la più prestigiosa. Quella che dà fama, denaro e sospetti. Non cede sulle salite del Mont Ventoux e tramortisce gli avversari con le cronometro: tranne che nel 2003, quando sconfigge Jan Ulrich con un minuto di distacco, vince ai Campi Elisi sempre con voragini sui secondi classificati. Domina le gare e il gruppo come un padre padrone. Maglia gialla su maglia gialla si infittiscono sospetti, accuse, denunce, mezze confessioni di qualche ex compagno della US Postal. Il quotidiano francese L'Equipe è quello che lo marca più stretto: Pierre Ballester scrive di una presunta positività all'Epo sulle urine prelevate allo statunitense durante il Tour di quell'anno. Poi, l'Agenzia antidoping francese Afld propone al campione americano di rianalizzare alcuni campioni di urina ma lui si oppone. Così si arriva al libro-inchiesta del 2004 "L.A. Confidential, i segreti di Lance Armstrong" del giornalista del Sunday Times, David Walsh, e all'amicizia sospetta con Michele Ferrari (lo stesso medico dal quale Alex Schwazer andava a farsi le tabelle di allenamento).

Il ritorno. Nel 2009 dopo tre anni lontano dalle corse si rimette in sella. Lo fa al Giro d'Italia, sempre snobbato in carriera: «Sono tornato a correre solo per parlare del cancro e per quelli come me, i sopravvissuti e le loro famiglie». Così si è giustificato, vince solo qualche garetta lontano dai grandi riflettori. Ma i sospetti non si fermano. Sono la sua ombra nera, la sua anima nera, ma Armstrong non è stato mai trovato positivo a un solo controllo antidoping, e non gliene hanno di certo risparmiati.

Oggi, Lance getta la spugna. Neppure lui, il più forte ciclista dell'era moderna, ha retto tanto buio. Quei sette Tour non sono mai esistiti. Con buona pace per le migliaia di tifosi che si sono accalorati vedendo quelle imprese. E così, con la lentezza della giustizia sportiva, muore il ciclismo.

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