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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2012 alle ore 18:49.

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Ambiente, salute, lavoro. I valori in gioco all'Ilva di Taranto entrano in contrasto anche mille chilometri più a nord: sempre in Italia, sempre in uno stabilimento siderurgico. A Trieste la Ferriera di Servola rischia di chiudere. Le cause sono due: le emissioni inquinanti e la crisi finanziaria del gruppo.

Qui la magistratura non è intervenuta, e i posti a rischio sono meno di quelli dell'Ilva. Ma sono comunque possibili tensioni sociali importanti.
«Dal punto di vista ambientale c'è solo l'imbarazzo della scelta», sorride amara Lucia Sirocco, presidente del Circolo Verdeazzurro Trieste di Legambiente. «Benzoapirene, pm10, pm2.5, diossine: le emissioni sono così consistenti che effetti sulla salute sono inevitabili. Livelli di inquinamento come quelli registrati dalle centraline portano anche malattie mortali. I cittadini che abitano vicino alla Ferriera denunciano continuamente problemi respiratori». Il sindaco Roberto Cosolini (di centrosinistra) conferma: «Il problema si percepisce di più d'estate, quando non c'è vento né pioggia, l'aria è ferma, e si tengono le finestre aperte». Alla questione inquinamento si sommano i debiti del gruppo Lucchini, che controlla l'impianto: un miliardo e 100 milioni secondo Stefano Borini, segretario provinciale Fiom. «Ormai l'azienda è in mano alle banche che vantano i crediti. A Taranto almeno ci sono i Riva a cui rivolgersi: qui non c'è più nessuno».

Come se ne esce? Il percorso a cui pensano Regione, Provincia e Comune sembra puntare alla chiusura nel 2015, per bonificare il sito e farci nascere una nuova attività. «Fermare lo stabilimento per riconvertirlo è un'ipotesi su cui lavorare», ammette il sindaco. «La cosa non si risolve con qualche cerotto. Vogliamo un riutilizzo produttivo della fabbrica, che porti una buona intensità occupazionale e migliori sensibilmente l'impatto ambientale». Riqualificare senza chiudere è possibile? «Difficile rispondere. Bisogna incaricare un pool di esperti di verificare tutte le soluzioni fattibili». Tra stabilimento e indotto i posti a rischio sono un migliaio, in una provincia che ha già 11mila disoccupati.

Per un progetto come quello accennato da Cosolini servono tanti soldi. Il Comune pensa a una partnership pubblico-privata, che comporti un impegno del Governo, un'assunzione di responsabilità della proprietà e gli investimenti di nuovi soggetti, «che al momento – dice il sindaco – non ci sono». Un'assenza che la Fiom imputa anche all'ipotesi chiusura: «Con questa prospettiva – spiega Borini – nessuno si fa avanti. Dev'esserci continuità produttiva anche dopo il 2015». No al percorso indicato dal sindaco: «Non ci sono le risorse. Le istituzioni non le hanno, e un'azienda con 1.100 milioni di debito non può cambiare neanche una guarnizione. Il risultato sarebbe una cattedrale nel deserto per anni, come a Bagnoli. Serve un percorso a stadi, una riqualificazione progressiva».

Di chi è la colpa se si è arrivati qui? La Fiom punta il dito contro l'inerzia politica. Il sindaco ammette che le istituzioni locali non hanno affrontato il problema, ma sottolinea anche l'assenza di investimenti dell'azienda. Legambiente parla di «ricatto occupazionale» con cui il gruppo è riuscito ad andare avanti senza cambiare rotta, e allarga il campo: «Il problema dell'inquinamento – dice Sirocco - ricade su tutta la città. Se ci fossimo fatti sentire in modo un po' più pressante, forse non staremmo facendo questi discorsi». Gli occhi di tutti sembrano puntati sul 2015, ma le cose potrebbero precipitare anche molto prima, per ragioni economiche o ambientali. Che cosa accadrebbe se i lavoratori fossero lasciati a casa, e la questione ambientale non venisse risolta? «Tensioni come quelle di Taranto non sono da escludere», avverte Borini della Fiom. E un'Ilva-2 non farebbe bene a nessuno.

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