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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2012 alle ore 07:42.

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Benjamin Netanyahu (Ap)Benjamin Netanyahu (Ap)

Ariel Sharon, che 40 anni fa lo aveva scelto per eliminare i capi palestinesi, diceva che «la sua specialità è separare un arabo dalla sua testa». Non si può dire che Meir Dagan, capo del Mossad fino a qualche mese fa, sia un pacifista. Ma è di questo che Bibi Netanyahu e il ministro della Difesa Ehud Barak lo accusano, da quando l'ex capo del servizio segreto ha detto che bombardare i siti nucleari iraniani è sbagliato: «L'Iran emergerebbe da un attacco più unito che mai e più determinato ad avere il nucleare». Come dire: si può bombardare la Bomba, non la capacità tecnica e la volontà politica di farla.

Il dilemma israeliano se attaccare o no l'Iran, nato come dibattito discreto fra i vertici politici e della sicurezza, è diventato una rissa pubblica. Come molti altri comandanti militari, anche l'ex capo di stato maggiore Gabi Ashkenazi è contrario all'operazione. Shimon Peres, il presidente, sostiene che «attaccare l'Iran senza il consenso americano sarebbe una follia». Sentitosi tradito, Netanyahu lo ha accusato di aver ucciso i mille israeliani vittime della seconda Intifada: Peres aveva firmato gli accordi di pace di Oslo, 1993. Da allora premier e presidente non si parlano.

La rissa è tracimata dagli stretti confini d'Israele. Qualche giorno fa Netanyahu e Dan Shapiro, ambasciatore Usa in Israele, hanno avuto uno scambio verbale che ha superato di gran lunga i limiti del bon ton diplomatico, dice chi ha partecipato all'incontro. L'eventuale bombardamento non sarebbe una questione fra Israele e Iran: esploderebbe il Golfo e difficilmente gli americani riuscirebbero a restarne fuori. È una questione internazionale: potenzialmente più importante della crisi economica globale che una guerra, i cui campi di battaglia sarebbero quelli petroliferi, aggraverebbe. Anche pensando ai rischi economici, Angela Merkel ha chiamato Netanyahu intimandogli di non attaccare l'Iran e «dare tempo alle sanzioni e alla diplomazia di essere efficaci».

Bibi ed Ehud Barak, al momento gli uomini più potenti d'Israele, sono i due fondamentali sostenitori dell'attacco. Il fondamentale oppositore al loro disegno è l'amministrazione democratica americana. Gli israeliani sono convinti che Barack Obama rivincerà e una volta rieletto sarà troppo forte per essere ignorato. Il presidente la pensa come Meir Dagan: c'è ancora spazio per la diplomazia, le sanzioni economiche e per sfruttare le divisioni nel potere iraniano. Per attaccare dunque la finestra possibile per Israele è da qui all'inizio di novembre. Mitt Romney è dichiaratamente favorevole ai piani di Netanyahu: un'operazione militare in campagna elettorale costringerebbe Obama a sostenerla. I sondaggi dicono che la comunità ebraica, potente negli "swing states" decisivi per la rielezione, continuerà a votare democratico. Ma non per un presidente democratico che non sostiene Israele in guerra.

L'altro ieri Netanyahu è stato minaccioso come con l'ambasciatore Shapiro: la comunità internazionale non è abbastanza determinata con l'Iran che «non deve avere armi nucleari». Temendo un'azione unilaterale, l'amministrazione americana ha pianificato nuove esercitazioni e missioni segrete nel Golfo. Bibi non è amato da nessun leader al mondo: Nicolas Sarkozy diceva che è un bugiardo. Ma Obama lo detesta. Da presidente non ha mai visitato Israele.

Dalla guerra in giù, gli americani stanno vagliando tutte le opportunità nel Golfo: compresa quella, al polo estremo del conflitto, di "vivere con la Bomba iraniana" o con la capacità tecnica iraniana di assemblare una bomba. Molti Paesi sono a questo livello che non viola il Trattato sulla non proliferazione. Per Israele questo è insostenibile. Bibi e Barak affermano che nonostante gli assassinii degli scienziati (organizzati da Dagan) e la guerra cibernetica di Usa e Israele ai computer iraniani, la Bomba è quasi pronta. L'Iran sta mettendo le sue centrali nel sottosuolo, è vicino al punto in cui, dice Israele, non sarà più possibile bombardarle.

Netanyahu ama paragonare la minaccia iraniana all'Olocausto: della retorica è un campione. Ephraim Sneh, ex generale e ministro laburista, anche lui contrario all'attacco, è più convincente sui rischi che corre il Paese: nell'ipotesi della Bomba iraniana, «Israele perderebbe il suo vantaggio strategico nella regione. Perderebbe la guida come Paese d'imprenditorialità ed eccellenza; calerebbero gli investimenti stranieri e i giovani israeliani di talento costruirebbero all'estero il loro futuro. Nessun leader israeliano responsabile permetterebbe che un tale incubo diventi realtà».

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