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Questo articolo è stato pubblicato il 06 settembre 2012 alle ore 08:05.

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Nel marzo 1998, lunedì 9 per la precisione, le cifre sui conti pubblici italiani presentate all'Ecofin da Ciampi aprirono la strada all'ingresso dell'Italia nell'euro. Il principale ostacolo restava la diffidenza di Germania e Olanda (rappresentata "dall'irriducibile ministro delle Finanze Gerrit Zalm" come si leggeva sui giornali) e dei banchieri centrali dell'Ime (l'Istituto monetario europeo, embrione della futura Bce) circa la nostra capacità di sostenere la riduzione del debito pubblico. Ma a Bruxelles Ciampi prende l'impegno a ridurre il rapporto debito/Pil al 100% entro sei anni (nel 2004) e al 60% in dodici (nel 2010): è la cosiddetta formula del 6 per 3 (3% in meno di debito sul Pil ogni anno per sei anni), che gli esperti del Tesoro giudicavano sufficiente per rientrare in un ragionevole arco nei termini dell'ultimo parametro di Maastricht. Ciampi progettava anche di inserire nel Dpef triennale 1999-2001, un ampio programma di privatizzazioni e dismissioni di aziende pubbliche. In effetti verso fine marzo 1998 sia l'Ime nel suo essenziale "Rapporto sulla convergenza" sia la Commissione europea certificarono – seppure in maniera sofferta - che il nostro rapporto fra debito e Pil «andava riducendosi in misura sufficiente, avvicinandosi al valore di riferimento con ritmo adeguato» (come previsto dall'art. 104 C del Trattato di Maastricht), per cui il Consiglio europeo di inizio maggio 1998 poté includere l'Italia nella lista degli undici partecipanti alla moneta unica. La Banca d'Italia effettuò l'ultimo taglio del tasso di sconto il 28 dicembre 1998, portandolo al 3%, comune a tutti i paesi dell'area euro.

Nel frattempo, in ottobre, era caduto in Parlamento il primo governo Prodi (che andrà poi a guidare per cinque anni la Commissione europea a Bruxelles); mentre Ciampi sarebbe diventato a distanza di poco tempo presidente della Repubblica: ma questa è un'altra storia.

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