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Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2012 alle ore 06:38.

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ROMA
Non c'è solo Matteo Renzi e la sua verve giovanilista contro il vecchio gruppo dirigente democratico a preoccupare il leader del Pd Pier Luigi Bersani. A poche settimane dalla sigla dell'accordo per l'alleanza progressista con Sel ci pensa lo stesso Nichi Vendola ad aprire un nuovo insidioso fronte a sinistra. Ieri il governatore della Puglia ha depositato in Cassazione, insieme all'Idv di Antonio Di Pietro, due quesiti referendari sul lavoro che in sostanza chiedono l'abrogazione della delega alla contrattazione collettiva e il ripristino dell'articolo 18 nella formulazione antecedente alla riforma Fornero. E riaprire la vecchia ferita sull'articolo 18, dopo il faticoso compromesso strappato da Bersani al tavolo di Palazzo Chigi, è proprio l'ultima cosa di cui a Largo del Nazareno si sentiva il bisogno.
Immediati gli effetti. Tra i sostenitori del referendum sul lavoro si è subito schierato Sergio Cofferati, pro Bersani alle primarie. «Gli onorevoli Enrico Letta e Francesco Boccia affermano che chi sostiene i referendum sul lavoro alle primarie di coalizione dovrebbe votare per Vendola, e mi invitano a farlo – polemizza l'ex segretario della Cgil –. Da parte mia voglio confermare a Pier Luigi che, per quel poco che vale, il mio voto non gli mancherà di certo». Poco dopo il sì al referendum da parte di Vincenzo Vita, rappresentante di quella sinistra pro Cgil molto seguita dalla base del partito. «Ritengo giusto aderire alle proposte referendarie sul lavoro – è l'argomentazione di Vita – perché ora più che mai la questione sociale e dell'occupazione assume toni drammatici».
Certo, a parte Cofferati e Vita, Bersani tiene tutti i dirigenti nel perimetro della riforma Fornero se anche un "falco" come Stefano Fassina stigmatizza l'iniziativa vendoliana: «Al referendum diciamo no, perché questi temi richiedono un protagonismo delle forze sociali – dice il respondabile economico del Pd –. È una deriva populista e antidemocratica». E in serata il leader del Pd, dal palco della festa di Padova, si lancia in un difficile esercizio di sintesi delle diverse posizioni spiegando di non trovarsi in antitesi con chi oggi propone i referendum. «La nostra non è una posizione antitetica - spiega Bersani –. Abbiamo difeso a proposito dell'articolo 18 la posizione di chi non voleva che si arrivasse a monetizzare il posto di lavoro, e abbiamo garantito che ci fosse un presidio della magistratura a proposito della giusta causa».
Ma nel Pd si riapre il dibattito non tanto sull'articolo 18 quanto sulla scelta di allearsi con un partito come Sel, che in materia di continuità delle politiche economiche di Monti – così come ci chiedono Europa e mercati – non sembra dare alcuna garanzia. In caso di vittoria alle urne come gestire una maggioranza di governo con dentro Vendola? Altro che Monti bis... Il lettiano Boccia allarga le braccia: «Tutto avrei pensato tranne che la discussione politica tornasse indietro di mesi. Ad ogni modo abbiamo le primarie per chiarire la linea della futura coalizione, chi vince darà la direzione». Ancora più duro il veltroniano Stefano Ceccanti, tra i 15 firmatari democratici del manifesto pro-Monti: «È un'iniziativa scriteriata nel vero senso del termine, è un atto unilaterale che costituisce una spada di Damocle tesa a lacerare una possibile coalizione e un governo di centro-sinistra». Chiosa l'ex ministro Tiziano Treu: «Referendum politicamente improponbile». Il referendum, semmai si farà, si farà nel 2014. Anche per questo Bersani sceglie di non esacerbare il clima, lasciando a Vendola qualche spazio di manovra a sinistra. Ma l'esercizio di equilibrismo stavolta è particolarmente arduo.
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