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Questo articolo è stato pubblicato il 18 settembre 2012 alle ore 06:36.

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«Il ridimensionamento nei numeri delle imprese c'è stato – osserva Nino Cerruti, a 82 anni maestro dello stile italiano e uno dei vecchi saggi dell'industria locale – e risponde a una doppia logica. Interna e esterna a Biella. Interna perché molte imprese sono scomparse e molte altre sono diventate più solide. Esterna perché sono cambiati gli equilibri nel mercato mondiale del tessile: il business internazionale, fino alla fine degli anni Novanta, era composto per due terzi dall'abbigliamento e per un terzo dagli accessori. Ora è rappresentato per due terzi dagli accessori e per un terzo dall'abbigliamento. Biella non fa accessori. Dunque è evidente che, nel corso degli anni, non poteva che rimpicciolirsi». All'interno di un contesto nazionale e locale sottoposto a una pressione fortissima da parte della concorrenza internazionale, Biella ha dunque tenuto (bene) e poi, scossa come l'intero capitalismo produttivo italiano e europeo, non è crollata.
«Oltre alla globalizzazione, è stata l'introduzione dell'euro a provocare anche qui un processo di selezione delle imprese», nota Roberto Strocco, direttore dell'ufficio studi di Unioncamere Piemonte, assecondando la linea interpretativa della Banca d'Italia che pone l'euro come chiave dello sviluppo manifatturiero, complesso ma alla fine efficace, degli ultimi dodici anni. Una selezione che ha peraltro garantito a Biella performance comparate migliori rispetto a quelle di altre parte d'Italia. Infatti, secondo l'analisi dei bilanci compiuta in particolare sul segmento della tessitura da Unioncamere Piemonte, perfino nel 2010 (primo anno dell'inoculazione del virus della crisi finanziaria nell'organismo manifatturiero internazionale) il fatturato a Biella è salito del 21,4%, contro l'incremento del 6,1% registrato dai suoi concorrenti di Prato e il +6,8% messo a segno da quelli di Varese. A Biella l'ebidta sulle vendite è stato pari al 6,7%, a Prato al 4,3% e a Varese al 2,7 per cento. Dunque, i biellesi hanno potuto contare su guadagni lordi di un buon cinquanta per cento superiori rispetto ai pratesi e più che doppi rispetto ai varesini. Esiguo per tutti il Roe: l'1% per i biellesi, sempre più però dello 0,3% degli imprenditori del tessile di Prato e del -1% di quelli di Varese.
«È evidente che sotto il profilo bilancistico esiste un problema di redditività – osserva Giampaolo Vitali, industrialista del Ceris-Cnr e segretario del Gruppo economisti di impresa –, ma questo aspetto, dopo l'avvio della crisi da eccesso di finanza innescatasi con il crollo nel 2008 di Lehman, riguarda tutta l'industria italiana». Un elemento di stabilità strutturale, nel caos dei mercati, è costituito da una focalizzazione che non si è trasformata in monocultura. «Alcune imprese – interviene Karel Rosa, 41 anni, titolare del Lanificio di Pray – hanno diversificato in maniera forte sugli abiti. Per esempio Zegna e Loro Piana. Dentro al bacino tessile si è costituito, nei decenni, un settore meccanotessile che funziona bene». In questi vent'anni, però, è stato soprattutto il lavoro interno alle singole imprese a sostenere il cambiamento. Un esempio della profonda ristrutturazione interna che ha subito, nelle sue singoli componenti industriali, il sistema produttivo locale biellese è rappresentato dalla Successori Reda, che ha la sede nel comune di Valle Mosso, in località Croce Mosso, il luogo fondativo del tessile biellese, dove nel 1816 Pietro Sella (antenato dei banchieri) portò una macchina di produzione belga aprendo la prima impresa laniera tessile italiana a telaio meccanico e inaugurando così il processo di industrializzazione che avrebbe portato queste montagne e questa prima pianura a diventare la Manchester italiana.
Nel 1998, dunque nel cuore di questi vent'anni che hanno cambiato volto al mondo e a questa comunità, i cugini Ercole e Francesco Botto Poala (proprietari e amministratori delegati della Successori Reda) hanno deciso di costruire un nuovo stabilimento. Allora avevano 360 dipendenti, lo stesso numero di oggi. «La nuova fabbrica – racconta Ercole Botto Poala, amministratore delegato della società, 41 anni, – ha rappresentato un salto di modernità. Abbiamo scelto di rimanere quassù perché i nostri tecnici e i nostri operai hanno un confronto continuo con la tradizione e la modernità. Bisogna sapere usare le macchine, guardare i colori, tastare i materiali». Ecco il nocciolo duro della modernità industriale italiana: il mix fra manifattura tecnologicamente avanzata e abilità pre-industriale. «Abbiamo investito 40 milioni di euro - dice Ercole Botto Poala - se avessimo deciso di costruirla a Biella, avremmo speso il 10% in meno, nel Sud Italia il 20% e nell'Est Europa la metà. In Cina non avremmo speso nulla, dato che allora le offerte formulate alle imprese stranieri da molte province prevedevano la costruzione dello stabilimento a carico totale dei governi locali». Dunque, per citare il classico einaudiano della microstoria di Franco Ramella, la terra e i telai qui non si sono mai disgiunti. Nemmeno nell'epoca dell'economia della conoscenza e del mondo digitale. «Basta pensare alla figura della rammendatrice – spiega Francesco Botto Poala – impieghiamo cinque anni a formarne una. Il suo occhio è insostituibile. I nostri concorrenti coreani hanno informatizzato le procedure di controllo della qualità del tessuto. Ma non ha senso. Su venti imperfezioni di un pezzo di stoffa, la telecamera ne coglie 15. Cinque non le rileva. L'occhio umano le percepisce tutte. Non mi chieda come, non sono un medico, ma è così».

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