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Questo articolo è stato pubblicato il 21 settembre 2012 alle ore 11:27.

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Il Governo vuole dettagli su fabbriche e prodotti, in Fiat si vuole prendere di petto il tema della competitività del sistema Italia. Perché il problema per Sergio Marchionne sta tutto qui, e tanto varrebbe affrontarlo una volta per tutte alla radice. Ieri l'ad ha lavorato tutto il giorno nel suo ufficio al Lingotto. Rientrato dagli Stati Uniti mercoledì, non ha modificato più di tanto la sua agenda in vista dell'incontro di domani. Ieri sera il premier Mario Monti (si veda l'altro servizio) ha detto che dal faccia a faccia si attende una risposta sulle strategie del Lingotto in Italia; ma non è scontato che gli auspici vengano soddisfatti.

Le istanze del Lingotto
Com'è noto il piano prodotti e stabilimenti, ovvero quel che resta di Fabbrica Italia, sarà pronto solo a fine ottobre. Certo Marchionne potrebbe concedere qualche anticipazione – in particolare su Mirafiori –, ma sul tavolo del Governo il manager porterà anche altro: la richiesta di un intervento in sede comunitaria a favore dell'industria dell'auto, uno sforzo sul versante degli ammortizzatori sociali, ma anche un'azione ad ampio raggio sul fronte della competitività. Il tema non è nuovo, e ruota intorno a quel che deve fare l'Italia perché Fiat possa continuare a competere su scala globale con una presenza produttiva concentrata nella penisola.

Le zavorre
Chi lavora con Marchionne sa che sono almeno quattro le questioni che, secondo il manager, appesantiscono il sistema Italia. Anzitutto, c'è il rischio Paese, un versante su cui anche al Lingotto si riconoscono i grandi meriti del governo Monti. Ma nonostante tutto, si ragiona in Fiat, lo spread che un'azienda italiana si trova a pagare rispetto ai suoi concorrenti europei resta troppo alto: sugli oltre 13 miliardi di obbligazioni in essere, il Lingotto oggi paga cedole comprese tra il 5 e l'8,25%. I bond emessi non sono rinegoziabili ma potrebbero essere coperti con nuove emissioni a tassi inferiori, senza contare che i tassi hanno un impatto diretto anche sulle linee di credito. Un fronte delicato, se è vero che nei giorni scorsi Fiat ha pagato cinque milioni per correggere le clausole di un prestito ed evitare un (teorico) default. Come anticipato dal «Messaggero», Fiat ha chiesto nei mesi scorsi a otto banche creditrici di modificare un covenant della linea di credito da 1,9 miliardi di euro (utilizzata in minima parte) in scadenza nel 2014, e cioè il rapporto minimo di copertura tra Ebitda e spese per interessi. Poiché l'Ebitda è calcolato sui risultati di Fiat senza Chrysler, nei prossimi trimestri il covenant sarebbe stato violato. Il teorico evento di default avrebbe potuto essere corretto a posteriori chiedendo una deroga (waiver), ma Marchionne ha preferito andare sul sicuro – al prezzo di uno 0,25% una tantum, ovvero appunto 5 milioni di euro.

Tornando alle "zavorre", legata al rischio paese Marchionne vede la difficoltà per i gruppi italiani di accedere ai prestiti Bce (di cui hanno beneficiato concorrenti stranieri dotati di licenza bancaria, agevolati da norme nazionali più favorevoli), così come un sistema di controlli sulle quotate ritenuto a volte troppo severo. Infine le norme sulla governance, in particolare sul voto plurimo che premia gli azionisti stabili dei grandi gruppi: proprio per questo Fiat Industrial, una volta fusa con Cnh, avrà sede in Olanda e non più in Italia. Ecco i quattro nodi che Marchionne potrebbe sottoporre a Mario Monti.

La Cig e i dirigenti
In attesa dell'incontro, ieri intanto è arrivato l'annuncio di un nuovo massiccio ricorso alla Cig a Melfi e Cassino ma anche alla Sevel di Val di Sangro, finora unica fabbrica che ha continuato a lavorare a pieno ritmo. Avviati anche i tagli dei dirigenti, con un piano che ridurrà del 20% i ranghi manageriali: lo snellimento è iniziato a giugno con l'avvio delle lettere di licenziamento (si veda Il Sole 24 Ore del 15 settembre); secondo l'agenzia Bloomberg il numero di dirigenti di Fiat spa in uscita dal gruppo è di circa 100 in Italia.

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