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Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2012 alle ore 08:14.

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TORINO. Dal nostro inviato
«Torino adesso è bellissima. Forse è più povera. Di certo è meno importante di una volta. Ma che non sia più soltanto la città della Fiat, non è una scoperta. È così da dieci anni». Rita Rolando vive in un palazzo della piccola e media borghesia, viali alberati che offrono suggestioni parigine a chi ama questa città. È una elegante signora di 82 anni che ha lavorato a lungo come segretaria di direzione alla Ilte, l'azienda allora pubblica che stampava giornali (per esempio la gloriosa Gazzetta del Popolo) e le prime Pagine Gialle. «Alla Ilte ho conosciuto un giovane e brillante Franzo Grande Stevens», racconta riferendosi a quello che sarebbe diventato l'avvocato dell'Avvocato.
Il suo mix di ricordi e di lucidità rappresenta bene il senso di metabolizzazione della fine della monocultura Fiat che si percepisce qui, in particolare fra le persone comuni. «In questi dieci anni – dice – abbiamo avuto le Olimpiadi, Torino ha cambiato volto, l'offerta dei nostri musei è migliorata, gli stranieri vengono nelle nostre pasticcerie». Il grande evento, al di là dei debiti che ha lasciato. Una nuova narrazione della città, al netto della realistica considerazione che il turismo e la cultura contribuiscono al Pil in misura minore rispetto alla manifattura avanzata.
In ogni caso, senza indugiare nella retorica, una reazione non estemporanea ma ben organizzata a un "malo passo" che, esattamente dieci anni fa, poteva portare all'inabissarsi di Torino. Il 25 aprile del 2002 doveva inaugurarsi la sessantanovesima edizione del Salone dell'auto. Non ci fu. Per la crisi del mercato. Un passaggio scioccante. L'ultimo in una road map coincisa con la riduzione degli apparati fordisti della città. Sempre meno one-company town, con gli storici impianti di Mirafiori trasformatisi in giganteschi fabbricati vuoti. Nove mesi dopo, il 24 gennaio del 2003, sarebbe morto Gianni Agnelli. Una coda interminabile di torinesi per salutarlo nella camera ardente allestita alla Pinacoteca Agnelli, che costituiva con le sue architetture e le sue collezioni d'arte il principale lascito culturale dell'Avvocato a Torino. Quella stessa Pinacoteca Agnelli alla cui festa per i dieci anni, prima di andare a Roma con Marchionne, ha partecipato ieri John Elkann con la famiglia. «L'elemento psicologico da cogliere – riflette lo storico dell'economia Giuseppe Berta, estensore del piano strategico della città sotto la giunta Chiamparino – è che la maggioranza dei torinesi ha da tempo fatto propria l'idea che la città si sta costruendo un'altra identità, un altro destino. Il secolo della Fiat si è chiuso fra il 2002 e il 2003. Per molti è scontato che il gruppo, dopo l'operazione Chrysler, sia diventato un player globale, sempre meno radicato in città. Semmai il problema è per le élite, che hanno vissuto per cento anni in un rapporto magari conflittuale, ma quasi simbiotico con gli Agnelli e l'azienda».
La borghesia delle professioni. Il ceto intellettuale di matrice azionista e comunista. «Sì, è vero – conferma Guido Bolatto, segretario della Camera di commercio –: le mosse di Marchionne e di Elkann vengono osservate e studiate minuziosamente soprattutto da quanti, con gli Agnelli e con la Fiat ghidelliana e romitiana, hanno avuto rapporti strettissimi». È normale. Grazie alla Fiat hanno vissuto in una vera capitale industriale europea. «Invece i fiorai, gli impiegati, i baristi e i piccoli imprenditori sanno da tempo che tutto è cambiato», conclude Bolatto.
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