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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2012 alle ore 16:43.

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La riforma del titolo V varata ieri notte dal Governo è un atto positivo e, in parte, dovuto. Perché interviene a tamponare alcune delle falle che il decentramento e il federalismo all'italiana hanno creato in 11 anni. Ma è un intervento che rischia di rivelarsi tardivo. Per tagliare il traguardo, infatti, una legge costituzionale richiede termini più ampi di quella ordinaria. E, con una legislatura agli sgoccioli, l'orizzonte temporale a disposizione dell'Esecutivo è di per sé più ristretto.

Un altro ostacolo sulla strada che porta a un'approvazione spedita delle Camere – che, come previsto dall'articolo 138 della Costruzione, dovranno pronunciarsi due volte a distanza di tre mesi l'una dall'altra – giunge dall'atteggiamento delle Regioni. All'indomani dell'approvazione in Consiglio dei ministri del Ddl, le voci che si alzano dai governatori restano quanto meno critiche. Con accenti che dalle parti dei presidenti leghisti si fanno addirittura apocalittici. Ed è difficile che un humus del genere non si riversi su un Parlamento in scadenza e su un quadro politico in eterno movimento.

Per il resto il disegno di legge partorito dal Governo centra il cuore del problema del titolo V introdotto nel 2001: avere attribuito alla concorrenza competente di Stato e Regioni alcune materie chiave (energia, trasporti, infrastrutture, coordinamento della finanza pubblica). Con il risultato di ingenerare non solo una confusione sul "chi fa che cosa" ma anche un elevatissimo livello di contenzioso davanti alla Consulta. Provare a riportarle sotto l'ombrello statale come fa il Ddl appare dunque una scelta di buon senso così come prevedere una «clausola di preminenza» per il livello statale. Ma tutto sta ora a metterle in pratica.

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