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Questo articolo è stato pubblicato il 17 ottobre 2012 alle ore 06:38.

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NEW YORK. Dal nostro corrispondente
Hillary Clinton ha fatto l'"extra mile" per proteggere il suo capo. Con vera dedizione, ha aggiunto il peso del suo intervento, dopo quello del marito Bill alla Convention democratica, per aiutare Barack Obama a essere rieletto: si è assunta la piena responsabilità degli attacchi a Bengasi. Una dedizione che dovrebbe essere un esempio politico da manuale. Non solo Hillary era stata ai ferri corti con Obama per le durissime battaglie durante le primare democratiche quattro anni fa, ma quasi certamente lascerà il dipartimento di Stato alla fine del primo mandato. Le tensioni sono state superate da tempo anche se sono in molti a dire che Hillary sarebbe stata molto meglio di Obama alla Casa Bianca. Ma l'uscita dall'arena politica attiva rendeva certamente meno impellente il suo intervento. Come dire, Hillary Clinton può ampiamente permettersi di dire di no a Barack Obama o di fargli un favore così impegnativo per la sua credibilità politica. Ma ha deciso invece di assumersi ogni responsabilità per l'attacco contro il consolato americano a Bengasi, per avere negato la richiesta di un rafforzamento o quanto meno di una permanenza del contingente militare a Tripoli e per aver dato all'inizio della crisi versioni contrastanti per spiegare la dinamica dei fatti. All'inizio infatti, il dipartimento di Stato aveva negato che l'attacco al consolato di Bengasi che ha ucciso quattro americani fra cui l'ambasciatore Christopher Stevens fosse stato organizzato da un gruppo di terroristi legati ad al-Qaida.
È su questo che i repubblicani e Mitt Romney in testa, proprio ieri notte durante il secondo dibattito, hanno capitalizzato per dimostrare la totale incompetenza di questa amministrazione. Attorno a questa tematica la situazione resta incandescente. E ora, dopo l'intervento di Hillary, la questione potrebbe complicarsi ulteriormente.
Non è chiaro che per Obama il mea culpa di Hillary sia positivo. La tradizione americana sulla scia del famoso detto di Harry Truman dice: «The buck stops here», (la responsabilità è mia) riferendosi alla scrivania dell'Ufficio Ovale. Dal punto di vista dell'immagine non c'è niente di peggio di un presidente che cerca di schivare le sue responsabilità scaricandole su altri in modo palese, come avviene in questo caso. Al di là della catena di comando, Obama avrebbe dovuto fin dall'inizio intervenire in prima persona. Ha dato invece l'impressione di nascondersi. Peggio, come ha osservato un repubblicano doc, «di nascondersi dietro le gonnelle di Hillary». Ed è questo che ha amplificato al di là delle attese l'aggressivo attacco repubblicano.
Un attacco multiplo. Oltre a Romney, che per primo aveva criticato la gestione della sicurezza in Libia e in generale nelle ambasciate durante le dimostrazioni post filmino anti Maometto, un'altra delle voci più autorevoli è stata quella del senatore Lindsay Graham, uno dei più influenti politici repubblicani del momento. Graham, della Carolina del Sud, ha rivelato di aver inviato due lettere all'amministrazione per chiedere conto di quali azioni si sarebbero intraprese per proteggere le sedi diplomatiche americane in Libia dopo attacchi in aprile e in giugno. E ha detto di aver inviato una lettera separata direttamente al presidente per informarlo delle sue preoccupazioni.
«Se il presidente è stato informato, la responsabilità è sua», ha detto Graham, con un corollario: se non è stato informato vuole dire che non ha il controllo della situazione. Un'accusa che giunge a Obama da più parti sempre più spesso. Si aggiungano a questo le richieste formali di Eric Nordstrom, il responsabile della sicurezza delle sedi diplomatiche in Libia fino allo scorso luglio. Nordstrom aveva chiesto la conferma di un contingente di 16 uomini che sarebbe dovuto partire alla fine di agosto. La richiesta era stata avallata dal capo del gruppo Andrew Wood della Guardia Nazionale dello Utah. Ma il dipartimento di Stato ha risposto di no: «Sarebbe come chiedere il sole, la luna e le stelle insieme», ha risposto un funzionario del dipartimento di Stato. E Nordstrom, al Congresso: «Non mi lamento degli attacchi del pericolo, mi lamento della lotta contro il nostro personale. Per me i talebani sono dentro il Palazzo». Accuse devastanti. Il contingente non fu confermato. L'ambasciatore Stevens aveva solo tre uomini di scorta. Il giorno dell'attacco aveva appena incontrato un diplomatico turco al consolato. Lo aveva accompagnato ai cancelli alle 8.30 di sera. Poco dopo sarebbe stato ucciso dai terroristi.
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