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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2012 alle ore 09:52.

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Storie losche, casi insoluti, misteri che aprono le porte su altri misteri, altrettanto abissali: per il cinema è tutta manna che piove dal cielo, una sceneggiatura d'oro squadernata bell'e pronta dalla realtà della cronaca. Che in Italia, si sa, è spesso molto più "creativa" della fantasia.

Vedi il caso Mattei. Come poteva il grande schermo ignorare una vicenda così oscura, densa di intrighi e, soprattutto, con protagonista un personaggio di tale statura? Non poteva, ovviamente, e il primo (e di gran lunga il migliore) a mettersi alla prova è stato, a dieci anni dall'"incidente" aereo di Bascapè, il principale dei nostri "registi-indagatori", Francesco Rosi. Che aveva cominciato, tanto per presentarsi, con due capolavori del calibro di "Salvatore Giuliano" e "Le mani sulla città". Il primo, specialmente, con al centro la mafia, i servizi segreti, le trame nascoste della più sporca politica italiana.

Passano gli anni, il quadro si fa ancora più buio. Quando Rosi gira, all'inizio dei 70, l'Italia è già precipitata nell'incubo degli anni di piombo: dopo l'orrore di Piazza Fontana tutto, purtroppo, sembra (e sarà) possibile. Immerso in questo clima lugubre, il regista riscrive insieme a Tonino Guerra una storia che aveva fortemente impressionato l'opinione pubblica italiana soltanto dieci anni prima, quando ancora il sogno del miracolo italiano non sembrava spezzato.

Eccola la chiave per capire Enrico Mattei, la chiave che Rosi e Guerra pongono al centro del loro racconto: il "miracolo", ripercorso attraverso il ritratto dell'uomo che più di ogni altro ha simboleggiato questa pazzesca voglia italiana di riemergere dalle macerie della guerra, questo orgoglio perduto e infine ritrovato. Un ritratto che si compone di mille tessere, un mosaico che, grazie al montaggio di Ruggero Mastroianni, prende corpo un piccolo tassello dopo l'altro.

Lo stile scelto dagli autori è infatti quello di un "Blu notte" lucarelliano ante litteram, con spezzoni di repertorio, racconti di testimoni, lunghe ricostruzioni di fiction, interventi diretti del regista. Su tutto, sempre presente la figura di "lui", di questo ex capo partigiano bianco che, navigando tra gli scogli perigliosi delle correnti democristiane, è riuscito prima a salvare l'ex creatura fascista Agip, di cui era stato nominato commissario liquidatore, poi a costruire con l'Eni una realtà petrolifera con interessi mondiali, le cui strategie davano profondamente fastidio ai padroni mondiali dell'energia, in primis le celebri "Sette sorelle" americane del petrolio.

Non un "santino", dunque, grazie soprattutto a questo stile da serrata inchiesta quasi-televisiva, che tuttavia salva in pieno la dimensione cinematografica grazie alla stratosferica prova di Gianmaria Volonté. Un attore a quel tempo al massimo della fama, insidiato in altre opere da un sospetto di gigionismo, ma che qui sa tenersi meravigliosamente a bada, comunicando in pieno la forza interiore, la volontà sopra le righe di Mattei. Ri-vedere per credere la lunga sequenza del viaggio in Sicilia, proprio il giorno che si sarebbe concluso con la sua morte: il rapporto con i contadini del Sud, il desiderio di piacere, di non deludere, il sogno grande di un capitano d'industria visionario e insieme di vere, solide, grandi vedute.

Rosi e Guerra non sposano, com'è giusto che sia, nessuna tesi, anche se tutto propende a far credere che l'aereo di Mattei sia caduto a causa di un attentato. Dal film emergono il titanismo del suo lavoro, la sua totale sintonia con la "pancia" degli italiani; e insieme, il ginepraio nazionale e internazionale in cui questo lavoro è costretto a svolgersi. Trame oscure che si prolungano fino alla scomparsa di Mauro De Mauro, che per conto del regista stava ricostruendo gli ultimi giorni del presidente dell'Eni in Sicilia. Orrori nostrani che, a distanza da mezzo secolo da quella tragica notte e di 40 anni dall'uscita del film, restano avvolti nella nebbia più densa.

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