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Questo articolo è stato pubblicato il 26 ottobre 2012 alle ore 06:42.

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Una distesa aspra di sabbia e pietraie ai piedi delle montagne, all'orizzonte la polvere dell'Afghanistan sollevata dal vento, in un'atmosfera quasi irrespirabile, giallastra e abbagliante; un paesaggio immobile, soffocante di giorno, con un freddo pungente di notte: è questo il Far West dell'Oriente, la provincia di Farah dove ieri è stato ucciso il caporale degli alpini Tiziano Chierotti, 24 anni, in pattuglia con altri tre militari rimasti feriti in uno scontro a fuoco nel villaggio di Siav, a venti chilometri dalla base "Lavaredo" di Bakwa.
Improvvisamente, nel mezzo delle diatribe politiche interne e dei problemi in cui si dibatte il Paese, l'Afghanistan, quasi dimenticato, irrompe di nuovo per ricordarci che dal 2004 sono morti 52 soldati, molti proprio in questa remota provincia, ai confini tra Herat e Helmand, che porta un nome leggiadro, il Gulistan, il giardino delle rose.
Ma nel giardino delle rose non c'è niente di poetico, questa è un sorta di "zona comanche" dei talebani, all'incrocio delle strade più frequentate dalla guerriglia, dove l'80% della popolazione è pashtun, l'etnia maggioritaria che alimenta le schiere degli uomini armati. Insieme ai guerriglieri ci sono dozzine di bande armate che lavorano ai fianchi le truppe Nato e a volte sono in concorrenza per controllare le vie delle armi e della droga.
Qui, nella provincia di Farah, l'Afghanistan presenta uno dei suoi volti più inafferrabili e insidiosi. Stiamo combattendo un conflitto in cui il vero nemico, oltre alla guerriglia, è la motivazione. Una guerra che va avanti da oltre dieci anni, la più lunga mai combattuta dagli americani, che dopo l'uccisione di Bin Laden sembra avere perso gran parte del suo significato. I soldati sono isolati in avamposti come quelli di Farah mentre si è creato una sorta di scollamento tra chi rischia la pelle sul campo e le ragioni che ci hanno portato tra i picchi dell'Hindukush. In questo paese aspro, gelido o bruciato dal sole, l'Italia ha pagato il più alto tributo di sangue dopo la seconda guerra mondiale: come scrive l'inviato Gian Micalessin nel suo ultimo libro dedicato alla missione, Tiziano Chierotti è uno di quelli che hanno staccato un biglietto di sola andata.
Ma l'Afghanistan è anche un impegno politico ed economico oltre che militare e un'aula vuota di senatori, pronti alla partenza con la valigia in mano, ha mancato ieri per assenza del numero legale la ratifica dell'accordo di partenariato e cooperazione tra Roma e Kabul, come se nella provincia di Farah, sulla famigerata strada 515, non fosse successo nulla. Questa è la nostra sensibilità nei confronti di una vicenda iniziata nel 2001 dopo l'attacco alle Torri Gemelle. Eppure per l'Afghanistan ci siamo mobilitati, abbiamo investito capitali umani e finanziari, speso parole commosse sul sacrificio degli italiani e degli altri militari del contingente internazionale. Ora - per quanto il premier Monti abbia ancora ieri auspicato che «tutto il mondo politico e istituzionale si raccolga intorno alle Forze armate italiane, confermando il pieno sostegno al loro impegno » - tutto sembra quasi dimenticato. Abbiamo un'emotività labile, una capacità di impegno così riprovevole che ha lasciato di stucco anche il sottosegretario agli Esteri Staffan de Mistura che fu rappresentante speciale dell'Onu a Kabul: i nostri soldati in Afghanistan oggi, nei loro avamposti, ci appaiono ancora più soli.
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