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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2012 alle ore 06:39.

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Lina
Palmerini «Un amalgama mal riuscito». Così Massimo D'Alema diceva del Pd a guida Veltroni e così si potrebbe dire anche oggi visto lo scontro a tutto campo che si sta vivendo con le primarie. Addirittura c'è chi profetizza la fine del partito se dovesse vincere Matteo Renzi e questo la dice lunga sull'abisso che ancora c'è tra le diverse aree culturali che compongono i Democratici.
Qui non si tratta affatto di uno scontro tra laici ex Pci e cattolici ex Dc, ma innanzitutto di culture politico-economiche in conflitto tra loro: da un lato l'ala Fassina-Damiano, dall'altra quella dei democratici "pro Monti" e del Renzi liberal. Tant'è che proprio il sindaco di Firenze, per le sue posizioni su economia e finanza, è stato più volte accostato a Berlusconi-Marchionne e demonizzato anche quando ha detto una cosa ovvia e banale dal punto di vista elettorale, cioè che per vincere occorrono i voti dei delusi del Cavaliere.
Stesso amalgama impazzito si è visto nel Pdl che ha vissuto prima uno strappo – quello di Fini – e poi una balcanizzazione. Senza la leadership di Berlusconi il partito è sparito, non ha avuto iniziativa politica, ha oscillato tra un segretario debole e talvolta in dissolvenza come è accaduto quest'estate quando sembrava che dovesse cedere il posto a un Berlusconi di nuovo vicino a una ridiscesa in campo.
Senza Cavaliere sono rimaste le culture d'origine, peraltro piuttosto fragili: quella che ambiva al riformismo-liberismo degli ex di Forza Italia; quella della destra sociale degli ex An. Durante gli anni di governo non sono stati pochi gli scontri, adesso è solo lo sbandamento e l'istinto di sopravvivenza che non porta a una rottura conclamata. Tant'è che molti puntano a ciò che si muove al centro, in quell'area moderata "liberata" dall'addio (o arrivederci) di Berlusconi, che guarda con insistenza a Mario Monti.
Ma appunto anche qui c'è un test-amalgama da affrontare e superare. Perché richiamare l'agenda Monti non è una bacchetta magica in grado di fare «fusioni a caldo» nel cantiere di centro. Al momento c'è un solo partito strutturato, l'Udc, che ha tradizioni cattoliche e una cultura più statalista che liberal-riformatrice com'è quella di Mario Monti. Pier Ferdinando Casini ha fatto compiere un salto ai "suoi" in Parlamento appoggiando il premier, ma un conto sono i deputati, un conto sono gli amministratori locali e gli elettori ancora legati a una vecchia impostazione. Per il resto, in quest'area si sta muovendo Italia Futura di Montezemolo, le Acli di Olivero, la Cisl di Bonanni, Sant'Egidio di Riccardi. Culture e provenienze solo parzialmente compatibili.
L'impostazione riformista di Nicola Rossi, al momento, non appare compatibile con quella di Raffaele Bonanni nè con la cultura cattolica di sinistra delle Acli. Insomma, dietro l'agenda Monti c'è un arcipelago frastagliato a cui serve un leader federatore.
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