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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2012 alle ore 08:41.

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LONDRA. Dal nostro corrispondente
Solo ai tempi di Margaret Thatcher Londra osava giocare tanto pericolosamente con il proprio destino in Europa. Non si assiste oggi a un ulteriore irrigidimento dell'euroscetticismo britannico rimasto immobile, aggrappato com'è alla linea di sempre, ma all'assoluta inconciliabilità di quell'aspirazione con gli sviluppi dell'Unione indotti dalla crisi dell'euro. Crisi che ha due effetti: ridà forza alle frange più radicali del partito conservatore, quelle stesse da cui proviene il premier David Cameron imbarazzato ora dalle esigenze di una realpolitik che non sa gestire; il definirsi con nettezza di una divaricazione ideale che non rende più accettabile la visione mercantilistica britannica in un'Unione in rapida marcia verso forme di più profonda integrazione.
Si svela, dunque, il lungo equivoco sull'asse Londra-Bruxelles e tanto basta per ridare fiato a chi pretende ancora di vedere la Ue come un veicolo destinato esclusivamente a sviluppare il libero scambio. Se a questo scenario si aggiunge la spregiudicatezza dell'opposizione laburista pronta a sfidare l'unità stessa del partito pur di vedere David Cameron in grave difficoltà, si spiega il no parlamentare alla linea proposta dal Governo in vista del bilancio europeo 2014-2020. Il dissidio è presto riassunto: l'esecutivo punta come compromesso finale al congelamento degli stanziamenti per l'Unione arrotondandoli solo dell'inflazione mentre l'emendamento degli euroscettici, votato anche dal Labour, chiede una riduzione in termini reali. E questo sull'onda di una considerazione che ieri i deputati Tory ribelli hanno ripetuto come una litania: tutti tagliano le spese quindi anche Bruxelles deve sforbiciare. Il Governo è andato sotto in una votazione che non serra, in termini legali, le mani del premier al tavolo negoziale, ma lo espone a un pericoloso ritorno ai Comuni per la ratifica dell'intesa quando sarà stata trovata. Se sarà trovata visto che molti partner invocano un aumento del bilancio opponendosi al congelamento e nemmeno considerando l'idea di una riduzione.
L'imbarazzo di David Cameron e del Cancelliere dello Scacchiere George Osborne è evidente. Minacciano l'uso del veto a tutela dell'interesse nazionale, ma vanno a trattare con un obiettivo di minima che già non basta al proprio Parlamento. Il vice premier Nick Clegg, liberaldemocratico, ha replicato con realismo. «Non c'è speranza che si possa ridurre il bilancio esistente». La signor Merkel ha già fatto sapere che è pronta a fare i conti con le bizze di Londra, nelle prossime ore chiamerà Downing street.
L'impasse va letto molto oltre i confini del budget Ue per i prossimi sette anni. È la storia di ieri, ingigantita dai fatti di oggi e destinata ad esplodere domani. L'ha riassunta con grande efficacia un ex ministro laburista. «Il pericolo - ha detto - è che così facendo titilliamo il lato più pericoloso dell'euroscetticismo». Non quello parlamentare, ma quello sempre ruggente di una nazione incerta. L'immagine di un premier che combatte sulle trincee di Dover contro l'avidità del Continente unito, continua a far effetto a queste latitudini. La stampa popolare cavalcherà le istanze più estreme e la tentazione di monetizzare in termini politici un facile consenso si farà fortissima. Lo testimonia la crescente popolarità dell'Ukip il partito che dell'uscita dalla Ue fa il suo unico punto di programma. Lo conferma la mano giocata da Ed Milliband che ha imposto anche ai neo-laburisti di marca blairiana un voto al fianco di Bill Cash, prototipo dell'europpositore fin dai tempi di Margaret Thatcher e molto oltre la sua linea. Della signora ex premier si torna a parlare in una paralisi del pensiero e dello sviluppo politico che spinge Londra nell'angolo. Molto più e molto più pericolosamente degli "eroici" anni Ottanta. A quell'epoca dominava la tattica, oggi è strategia. O forse nemmeno quella.
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