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Questo articolo è stato pubblicato il 08 novembre 2012 alle ore 07:38.

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SHANGHAI - C'è una domanda che spesso si pongono gli stranieri venendo a contatto ravvicinato con la Cina contemporanea: come ha fatto un Paese come questo a diventare comunista? Niente, in effetti, sembra più lontano dalla teoria marxista-leninista e dalla sua rielaborazione maoista della società cinese di oggi. Una società dove il culto del dio denaro, della ricchezza e dell'opulenza ha soppiantato ormai da tempo qualsiasi altro valore, trasformandosi in un principio fondante per oltre un miliardo di persone.

Eppure non solo la Cina, 63 anni fa, è diventata un Paese comunista. Ma il comunismo continua a essere il credo ufficiale della sua classe dirigente. Sono comunisti gli uomini politici che governano il Paese. Sono comunisti i comandanti in capo delle Forze armate. Sono comunisti gli alti burocrati pubblici. Sono comunisti perfino i maggiori (che sovente sono anche i più ricchi) imprenditori nazionali. Almeno dal punto di vista formale. Non potrebbe essere diversamente. In un Paese che, nel giro di trent'anni, si è evoluto da un'economia collettivista a un sistema capitalista in piena regola, infatti, il Partito comunista rappresenta l'unico elemento di continuità tra il vecchio e il nuovo. Ma, soprattutto, in un Paese dove l'evoluzione verso l'economia di mercato non è stata accompagnata da una parallela e fisiologica evoluzione politica verso un modello democratico, rappresenta l'unica, indiscutibile, fonte di legittimità per un'intera classe dirigente.

Tra pochi giorni quella poderosa e granitica (almeno all'apparenza) organizzazione politica sarà chiamata a un appuntamento cruciale. L'8 novembre, a Pechino, si apre il XVIII Congresso del Partito comunista cinese. Nel giro di una settimana, il conclave rosso ufficializzerà la decennale transizione ai vertici del Partito e darà anche una bella rimescolata alle posizioni di potere all'interno della nomenklatura.

I giochi sono fatti da tempo. Salvo clamorose sorprese dell'ultima ora, Xi Jinping raccoglierà da Hu Jintao il doppio testimone di Segretario del partito e di presidente della Repubblica popolare; resta da vedere se l'attuale numero uno conserverà l'importantissima carica di presidente della Commissione militare (come fece Jiang Zemin nel 2002). Li Keqiang, invece, sostituirà Wen Jiabao sulla poltrona di premier.

Sul resto del copione grava una grossa incognita. Sicuramente qualcuno entrerà e qualcuno uscirà dagli organi più alti del partito: il Comitato centrale, il Politburo e il Comitato permanente del Politburo. Inoltre, il Congresso metterà le basi per un successivo rimpasto di cariche ai vertici delle Province, delle grandi città, degli enti amministrativi e delle grandi società di Stato. L'incognita maggiore riguarda il Comitato permanente del Politburo, cioè la ristrettissima stanza dei bottoni che detta le linee guida della politica cinese. Attualmente è composto da nove membri, sette dei quali (tra cui Hu e Wen) dovranno lasciare l'incarico per raggiunti limiti d'età. Da mesi le indiscrezioni che filtrano da Zhongnanhai, la cittadella di fianco alla Città proibita dove risiedono gli imperatori e i mandarini rossi, dicono che il Comitato permanente verrà ristretto a sette effettivi.

A parte Xi e Li, che dal 2007 fanno già parte dell'organo supremo della politica cinese, chi saranno i nuovi top leader? È una domanda cruciale perché tra loro ci saranno con ogni probabilità anche gli uomini che guideranno le sorti della Cina dopo il 2022, quando un altro Congresso sarà chiamato a mettere i sigilli a un'altra transizione epocale di potere. Sempre che, naturalmente, l'attuale sistema sopravviva indenne fino ad allora. Già, perché mai come oggi il partito unico si ritrova minacciato su molteplici fronti.

Gli elementi potenzialmente destabilizzanti stanno fuori e dentro l'apparato: il confronto dialettico tra conservatori e riformatori innescato dallo scandalo di Bo Xilai; la difficile congiuntura economica; il perdurante divario di ricchezza tra le diverse aree del Paese; la frustrazione crescente di chi non è ancora riuscito a salire sul treno dello sviluppo che, dopo anni di corsa sfrenata, in futuro potrebbe rischiare il deragliamento.

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