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Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2012 alle ore 06:37.

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TRIPOLI. Dal nostro inviato
La Libia è terra di paradossi. Lo era ai tempi di Gheddafi quando la pomposa Jamahiriya era un comitato di trìbù infeudate al capo che sognava un'egemonia africana. Lo è rimasta oggi: non ci sono né un esercito né una polizia, il Governo è espressione di una precaria spartizione di posti ma sopravanzando Qatar ed Emirati è diventata il maggior finanziatore (20 milioni di dollari) della guerriglia che vuole abbattere Bashar Assad.
I nuovi governanti libici, di nome e di fatto assai transitori, spendono i quattrini del petrolio per sostenere i ribelli ma si guardano bene dal ripagare i debiti, tra questi i 600 milioni di euro reclamati da un'ottantina di aziende italiane. «Terremo fede ai nostri impegni ma dovete capire che siamo condizionati dalle circostanze», si giustifica il nuovo primo ministro Ali Zidane davanti al ministro degli Esteri Giulio Terzi che ieri ha incontrato a Tripoli anche il presidente Mohammed Magarief e il ministro della Cooperazione. Una delegazione italiana numerosa, con una consistente rappresentanza imprenditoriale, che ha incassato dal ministro libico Mohammed Abdel Aziz il primo sì all'autostrada costiera per il tratto dal confine egiziano a Bengasi appaltato al consorzio guidato dalla Saipem (un'opera da 800 milioni di euro su un valore complessivo di 3,6 miliardi): è la prima volta che un Governo post-rivoluzionario riconosce, anche se solo verbalmente, una parte concreta dell'accordo firmato nel 2008 con Gheddafi.
La nuova Libia è ancora una creatura di sabbia, spazzata dai turbini dell'instabilità. Ci sono 200mila miliziani in circolazione, le divisioni regionali e tribali sono aspre, i Warfalla intorno a Bani Walid restano in parte fedeli al vecchio regime e l'uccisione da parte di gruppi integralisti dell'ambasciatore americano a Bengasi Chris Stevens è stato un anniversario traumatico dell'11 settembre per Washington ma anche un monito per Ue e comunità internazionale: abbandonare la Libia al suo destino può costare caro. Le frontiere, dopo il crollo del regime, sono sprofondate di mille chilometri dentro al Sahel trascinando anche il Mali nel caos. La Libia, come dimostra la storia coloniale italiana, è una creatura di sabbia difficile da domare.
«Siamo qui per sostenere il percorso democratico del Paese», ribadisce Terzi a un sorridente Mohammed Magarief, presidente dell'assemblea nazionale e capo di stato provvisorio: qualche giorno fa si è preso uno spavento quando i miliziani sono entrati alla Costituente e i deputati sono dovuti fuggire da una porta secondaria. Magarief, un galantuomo, oppositore di Gheddafi da 30 anni, non ha trattenuto le lacrime. Nel centro della capitale, che ieri appariva avvolta in un'ingannevole sonnolenza mediterranea, domenica ci sono stati morti e feriti negli scontri tra fazioni davanti alla sede dell'intelligence nazionale. Alla fine di tormentate trattative è stato varato un Governo che doveva giurare domani ma la cerimonia è stata rinviata: «Giuramento e passaggio di consegne avverranno la prossima settimana», dice Zidane.
I paradossi libici non sono finiti. Questa Libia così ingestibile, dove i generali sono costretti a definire «governative» le milizie che non gli sparano addosso, nel big business lancia segnali di forte continuità. Sono state appena scongelate le quote azionarie libiche per un miliardo di euro in UniCredit e Finmeccanica e le autorità libiche hanno immediatamente confermato che insieme all'Eni sono investimenti strategici. Il petrolio è il pilastro che mantiene in piedi tutto. La produzione è tornata ai livelli pre-rivoluzionari con 1,6 milioni di barili al giorno, ha proiettato al rialzo gli utili dell'Eni e punta a quota due milioni. L'oro nero tiene insieme il vecchio e il nuovo. Non solo è l'unica fonte di entrata ma anche perché la produzione è in mano alla tecnocrazia allevata durante il regime. Le fondamenta della creatura di sabbia restano nelle vene dove scorrono gas e petrolio.
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