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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2012 alle ore 10:02.

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La Cina ha il suo nuovo leader massimo. Poche ore fa, il Comitato Centrale del Partito Comunista ha nominato Xi Jinping nuovo Segretario Generale della nomenklatura rossa.
L'attesissima transizione decennale di potere al vertice della superpotenza asiatica si è svolta esattamente come previsto dal copione: Xi è diventato il nuovo comandante supremo; il numero dei membri della cupola del Partito è stato ridotto da 9 a 7; quasi tutti i probabili candidati sono riusciti a varcare il Sacro Soglio della nomenklatura.
Rilassato, sorridente, fin da subito assai meno ingessato del suo predecessore, Xi Jinping ha annunciato se stesso come il nuovo numero uno del Partito. E poi ha presentato la ristrettissima squadra di uomini che guiderà la Cina fino al 2022. "Do il benvenuto ai miei sei compagni all'interno del Comitato Permanente del Politburo" ha detto Xi seguendo la classica liturgia che assegna un peso gerarchico a ciascun leader in base all'ordine di lettura dei nomi.
Eccoli: Li Keqiang, l'uomo che con ogni probabilità sostituirà Wen Jiabao sulla poltrona di premier; Zhang Dejiang, il Segretario del Pcc di Chongqing; Yu Zhengsheng, il numero uno della nomenklatura di Shanghai; Liu Yunshan, il direttore dell'Ufficio Propaganda; Wang Qishan, vicepremier con le deleghe all'economia; Zhang Gaoli, il boss del Partito a Tianjin. Questo pugno di uomini, dal nome finora sconosciuto oltre la
Grande Muraglia, guiderà le sorti del Dragone fino al 2022.
Con un mandato fortissimo. A differenza di dieci anni fa, quando durante la transizione dalla Terza alla Quarta Generazione Jiang Zemin si tenne ben stretta la carica di presidente della Commissione Militare Centrale fino al 2004, questa volta Hu Jintao si è fatto completamente da parte (almeno formalmente, perché poi, nella migliore tradizione della politica cinese, continuerà a esercitare il suo potere e a manovrare dietro le quinte).
Il che ha consentito a Xi Jinping di diventare subito anche comandante supremo dell'Esercito di Liberazione. Così la prossima primavera, quando l'Assemblea Nazionale del Popolo lo acclamerà alla presidenza della Repubblica Popolare, il
nuovo uomo forte di Pechino si ritroverà a controllare tutte e tre le istituzioni chiave: il Partito, lo Stato e le Forze Armate.
Ciononostante, per mantenere il consenso all'interno del Comitato Permanente del Politburo (un fattore cruciale negli equilibri interni al Partito nel dopo Deng), Xi dovrà usare una buona dose di abilità, astuzia, determinazione e diplomazia. Benché ridotta da 7 a 9 membri, infatti, la stanza dei bottoni dell'apparato continuerà a essere l'espressione dei diversi gruppi di potere che tirano le fila della vita politica cinese.
In questo quadro, visto il meccanismo contorto e imperscrutabile che ha disciplinato il cambio della guardia ai vertici del Partito Comunista Cinese, una
domanda è d'obbligo: se i nuovi membri dell'elite rossa sono stati nominati dai loro stessi predecessori, senza uno straccio d'investitura democratica e popolare, cosa cambierà nella vita della superpotenza asiatica?
Naufragati i grandi programmi riformisti annunciati e mai realizzati dal Governo uscente, la lista delle cose da fare che attende la nuova classe dirigente è lunga e composita.
Sul piano economico il paese ha tre priorità. Uno: cambiare il vecchio modello di sviluppo, aumentando il peso della domanda interna e delle produzioni ad alto valore aggiunto, in modo da rompere la storica dipendenza di Pechino dalle esportazioni. Due: riformare il sistema finanziario per preparare il terreno alla piena convertibilità dello yuan. Tre (la
più coraggiosa): rompere lo strapotere dei monopoli pubblici per liberare maggiori risorse a favore del settore privato.
Sul piano sociale l'imperativo categorico è lo stesso di sempre: colmare il divario di ricchezza tra chi ha e chi non ha, tra Nord e Sud, tra città e campagna. Inoltre, se si vuole che i cinesi consumino di più, bisognerà ricostruire un welfare state oggi pressoché inesistente.
Ma è sul fronte politico che il nuovo Governo dovrà muoversi come se procedesse su un campo minato. Esaurita l'epopea del miracolo economico, infatti, il modello basato sulla centralità del partito unico escogitato da Deng Xiaoping negli anni '80 mostra sempre più la corda. E i recenti scandali che hanno travolto la nomenklatura, scoperchiando una corruzione profonda ed endemica all'interno
dell'apparato, hanno complicato notevolmente le cose, rendendo più urgente una metamorfosi del Partito.
Lo si capisce navigando tra i numerosi e attivissimi social network che oggi, nonostante la censura, rappresentano l'unico vero termometro degli umori popolari. Un fatto sembra chiaro: il grado di scontento, disgusto, repulsione e disincanto raggiunto nel paese nei confronti del sistema è prossimo al livello di guardia.
Ecco perché, a differenza di chi l'ha preceduta, la nuova leadership sarà costretta a rispondere concretamente alle numerose istanze di cambiamento provenienti da diversi settori della società cinese. Volente o nolente, perché ne andrà della sua stessa sopravvivenza.

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