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Questo articolo è stato pubblicato il 20 novembre 2012 alle ore 06:38.

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I bulldozer, i carri armati e i 40mila uomini schierati sul confine tra Israele e Gaza attendono di sapere se sarà invasione o tregua. È a una soluzione diplomatica che stanno lavorando entrambe le parti, parlando separatamente con i mediatori egiziani. Ma non c'è tregua per i razzi - ieri 45 - lanciati dai miliziani contro Israele, né per i bombardamenti israeliani sulla Striscia che, anzi, tra domenica e lunedì si sono intensificati allungando il numero degli obiettivi, aggravando rapidamente il bilancio dei morti palestinesi, ormai più di cento. Una soluzione diplomatica è preferibile, dicono gli israeliani: ma lo scopo dell'operazione è azzerare la capacità offensiva di Hamas, e Israele - ha spiegato un alto funzionario del Governo Netanyahu all'agenzia Reuters - «potrebbe non avere alternative, se la diplomazia fallisce». L'invasione resta una possibilità.
Tra le macerie di Gaza City, i dirigenti di Hamas contano le vittime ma - non più isolati - dettano le condizioni per il cessate il fuoco: diversi alti funzionari sono passati per la Striscia, oggi sarà in visita il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Capitale dello sforzo diplomatico è però il Cairo, l'Egitto dei Fratelli musulmani "padrini" di Hamas messo alla prova dal delicato compito di dar voce ai palestinesi senza respingere le pressioni dell'Occidente al negoziato, senza smettere di parlare a Israele.
Gli egiziani sono ottimisti. Sostengono che l'intesa per una tregua sia vicina, malgrado le parole suonino ancora lontane: «Chi ha iniziato la guerra la deve terminare», ha chiarito in conferenza stampa al Cairo Khaled Meshal, leader di Hamas in esilio. La tregua, chiesta - secondo Meshal - dal premier israeliano Benjamin Netanyahu, è possibile: ma spetta prima a Israele fermare gli attacchi e le uccisioni mirate, e poi mettere fine all'assedio imposto cinque anni fa, impegnarsi a non attaccare ancora e chiamare la comunità internazionale a farsi garante. Nelle condizioni esposte al Cairo, Israele include invece una tregua per un periodo di oltre 15 anni, la cessazione del contrabbando di armi a Gaza e dei lanci di razzi da parte di tutte le fazioni armate palestinesi, il diritto di dare la caccia ai terroristi in caso di attacco, la garanzia del presidente egiziano, Mohamed Morsi.
«Se il Sud resta tranquillo - scrive su Twitter il vicepremier israeliano Moshe Yaalon - e non vengono più sparati razzi e missili contro cittadini israeliani, né orditi attacchi terroristici dalla Striscia di Gaza, non attaccheremo». In Israele, registra un sondaggio del quotidiano Haaretz, la maggior parte dell'opinione pubblica - 84% - appoggia i raid aerei, ma non un'invasione di terra, cui aderisce solo il 30% degli intervistati. Dall'inizio dell'attacco, mercoledì scorso, quando un missile a Gaza centrò l'auto di Ahmed al-Jabari, leader delle brigate al-Qassam braccio militare di Hamas, su Israele sono piovuti più di 1.300 razzi, di cui 324 intercettati e distrutti. Tre i morti, 80 i feriti secondo i dati forniti dall'Esercito israeliano.
Nei formicai di Gaza, tra gli obiettivi colpiti ieri un palazzo che tra l'altro è sede di media stranieri, finito però nel mirino perché nascondiglio di militanti della Jihad islamica, coinvolti - sostiene Israele - nei lanci di razzi. Fonti palestinesi hanno portato ieri il totale delle vittime di sei giorni a 101 morti, di cui 20 bambini. Tra loro gli 11 abitanti di una casa rasa al suolo domenica, un'intera famiglia annientata in un episodio su cui Israele ha aperto un'inchiesta, mentre la stampa parla di bersaglio sbagliato.
Le immagini dei funerali per le strade di Gaza e l'eco delle esplosioni, le sirene e la paura nelle città di Israele sono un richiamo incessante ad arrivare il più presto possibile a un'intesa, come ripete il presidente americano Barack Obama che ancora ieri sera ha parlato per telefono a Morsi e a Netanyahu, avvertendo che i lanci di razzi da parte di Hamas devono cessare. Tutto è appeso al filo della diplomazia, un equilibrio fragilissimo che fa dire al premier turco Recep Tayyip Erdogan, un tempo un alleato, che «Israele è uno Stato terrorista, e le sue azioni sono atti terroristici». La speranza che sta frenando l'invasione si può sbriciolare in qualunque momento.
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