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Questo articolo è stato pubblicato il 24 novembre 2012 alle ore 08:15.

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BARCELLONA. Dal nostro inviato
Succede ogni volta che il Barcellona gioca al Camp Nou. Dopo 17 minuti e 14 secondi, la folla di 100mila catalani che sempre riempie lo stadio per sostenere la propria squadra inizia a gridare unita, a ritmo, scandendo le parole: «In-inde-independencia» e continua crescendo di intensità e forza, «in-inde-independencia» mentre le tribune si ricoprono di strisce giallo-rosse e di stelle, quelle della bandiera della Catalogna. Il simbolo di tutte le rivendicazioni di questa Regione nei confronti della Spagna.
La prima volta il grido di indipendenza si è sentito a inizio ottobre, durante lo scontro con i bianchi del Real Madrid, i nemici di sempre. Da allora è diventata una tradizione che gioca con i numeri: l'orologio sopra gli spalti che segna 17 minuti e 14 secondi porta tutto lo stadio indietro fino al 1714, l'anno in cui le truppe borboniche entrarono a Barcellona e la Catalogna perse l'indipendenza: era l'11 settembre, una data diventata la Diada, la festa prima dell'inizio di quella che i separatisti considerano la «dominazione castigliana», e la festa che l'ultima volta ha portato nelle strade della capitale catalana più di un milione di persone, unite - anche nella Regione più ricca del Paese - dalla crisi economica contro il Governo di Madrid. Con in mano gli striscioni «Catalogna nuova Nazione d'Europa», gli stessi che si vedono al Camp Nou.
Domenica, 5,4 milioni di elettori catalani voteranno per rinnovare il Parlamento, ma anche e soprattutto sceglieranno cosa dovrà essere la Catalogna. Il governatore uscente Artur Mas è il grande favorito: con lui, negli ultimi mesi, CiU, Convergencia i Unio, la formazione degli indipendentisti moderati, alleata di popolari e socialisti per lunghi anni a seconda delle esigenze, si è spostata verso posizioni radicali, verso l'indipendenza. Mas ha chiesto al «popolo catalano» uno sforzo per sostenerlo con una «maggioranza speciale». E ha promesso che organizzerà un referendum nel quale i catalani avranno «finalmente il diritto di decidere» se vogliono continuare a far parte della Spagna o se preferiscono «diventare un nuovo Stato del tutto autonomo, comunque dentro l'Unione europea».
Anche lasciando da parte le profonde e imprevedibili implicazioni economiche di una scissione, il «processo verso la sovranità» ha di fronte ostacoli che sembrano insuperabili. La Costituzione spagnola non prevede in alcun modo la possibilità per una Regione di separarsi dallo Stato nazionale: può essere modificata ma solo con maggioranze qualificate che si trovano solo a Barcellona, non certo nel Parlamento spagnolo di Madrid. In questo senso anche la richiesta di un referendum di autodeterminazione si scontra con le leggi che lasciano al Parlamento nazionale l'ultima decisione su una simile consultazione. Barcellona dovrebbe quindi muoversi in contrasto con Madrid vedendosi costretta ad affrontare ulteriori problemi. «Tutte le opzioni che implicano una violazione dell'ordinamento giuridico costituiscono un attacco alla democrazia. Perché la democrazia non è solo il governo del popolo ma anche la garanzia della supremazia della legge e dello Stato di diritto», spiega Javier Cremades, avvocato di fama che assieme ad altri giuristi ha firmato una dichiarazione per la unità giuridica della Spagna. «Non si tratta di una scelta di campo politica sul futuro della Catalogna, l'obiettivo - continua Cremades - è fare in modo che le legittime aspirazioni democratiche si sviluppino nel pieno rispetto dell'ordinamento giuridico».
E nei confronti dell'Europa, come verrebbe considerata una Catalogna indipendente? Da Bruxelles il presidente della Commissione José Manuel Barroso ha chiarito che la Regione di Barcellona dovrebbe prima di tutto ricevere il riconoscimento di tutti i Paesi membri e poi seguire le procedure per chiedere di entrare a far parte dell'Unione. La vicepresidente della Commissione Viviane Reading ha sottolineato inoltre che «l'Unione europea non può in alcun modo riconoscere una dichiarazione unilaterale di indipendenza di una parte di uno Stato membro», ribadendo così le motivazioni espresse in Spagna dal premier Mariano Rajoy. «Il riconoscimento internazionale è imprescindibile. Mas sta sottovalutando le conseguenze internazionali di una indipendenza della Catalogna contro la volontà dello Stato», dice Martin Ortega Carcelen, professore di diritto internazionale all'Università Complutense di Madrid.
I sondaggi assegnano a CiU 62 seggi nell'Assemblea catalana, gli stessi che ha oggi, sei in meno della maggioranza assoluta: Mas non nasconde la necessità di cercare alleanze per arrivare al referendum sull'indipendenza, ma si scontra con il federalismo dei socialisti e con la volontà dei popolari di mantenere il sistema attuale delle autonomie.
Di certo - comunque vada e pur rimanendo numerosi dubbi - un risultato l'ha già raggiunto: sfruttando lo scontro con Madrid sul patto fiscale tra Regioni, cavalcando senza freni la protesta della piazza, minacciando una consultazione popolare sull'autodeterminazione (voglia o non voglia il Governo nazionale), il governatore catalano ha costretto tutti a prendere in considerazione la possibilità che la Catalogna possa diventare, un giorno, indipendente. Una questione che, nonostante le rivendicazioni storiche, era fuori discussione prima di questa campagna elettorale.
E così la figura del governatore, la mascella sporgente del leader che guida la rivolta verso Madrid, si sovrappone a quella di Carles Puyol, capitano in campo con la maglietta blaugrana e catalano di nascita. Politica e calcio si mescolano, come è sempre stato per il Barcellona, mes que un club, molto più di un club anche nei tempi duri della dittatura franchista. E come sarà domani quando la Catalogna deciderà con il voto buona parte del suo destino.

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