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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2012 alle ore 09:53.

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Emergono dall'illegalità ma i costi di gestione lievitano e non c'è altra scelta che la messa in liquidazione.
E' il paradosso al quale va incontro in Italia la maggior parte delle aziende che vengono sequestrate alle mafie. C'è chi non si arrende e dopo i riflettori accesi sul punto da Assolombarda e Fondirigenti (si veda il Sole 24 Ore online del 29 ottobre e il Sole-24 Ore del 30 ottobre) è ora il turno della denuncia e delle proposte dell'Istituto nazionale degli amministratori giudiziari (Inag).

Oggi – nel corso del 2° congresso nazionale a Roma – partiranno proprio dalle proposte visto che, come afferma il presidente dell'Inag Domenico Posca, "tra le aziende sequestrate in Italia, circa la metà sono inattive. Tra quelle attive, circa 600 sono in fase di liquidazione, le altre sono tenute in vita dagli amministratori giudiziari". E visto che, è sempre Posca a dirlo, "numeri alla mano, immobili e aziende fin quando vengono gestite dagli amministratori giudiziari mantengono il loro valore, talvolta incrementandolo. La legalità ha un costo che non sempre consente alle aziende in sequestro di restare competitive. L'amministrazione giudiziaria di queste aziende operando nella piena legalità con difficoltà, mantiene l'equilibrio economico finanziario dell'impresa per tutelare i livelli occupazionali e produttivi".

Le proposte vanno dalla creazione di un Confidi per l'erogazione dei finanziamenti o per fornire garanzie alle aziende sequestrate, alla moratoria fiscale, passando attraverso la sospensione del versamento dei contributi da sei mesi ad un anno per favorire il sostenimento dei costi per la legalizzazione dell'impresa.

Sul tavolo resta poi il paradosso: ancora si attende l'emanazione del decreto di attuazione per rendere operativo l'Albo degli amministratori giudiziari al fine di garantire i requisiti di professionalità, onorabilità ed esperienza di coloro che devono svolgere questo delicato incarico.
Il valore complessivo delle aziende sequestrate è stimabile in miliardi e solo questo dovrebbe rendere l'idea della posta in gioco. Ma gli esempi che oggi racconteranno gli amministratori giudiziari sono al limite dell'incredibile.

Casi paradossali
All'inizio dell'anno un gruppo societario con circa 700 dipendenti, che opera nel settore della macellazione delle carni, con esercizi in diverse parti d'Italia, è fallito dopo appena sei mesi dal sequestro penale nell'ambito di un'indagine per riciclaggio di denaro frutto di evasione fiscale. Il fallimento è stato causato dal lievitare dei costi di gestione dopo il sequestro. Nel caso in esame l'aumento dei costi è stato dovuto essenzialmente alla regolarizzazione del costo dei dipendenti in conformità del contratto nazionale e al versamento dei relativi contributi previdenziali ed assistenziali prima evasi in parte o in toto.

"Proprio all'inizio di questa settimana ho chiesto la messa in liquidazione di un grande ipermercato nella provincia di Brindisi con 14 dipendenti e un fatturato di quasi un milione di euro", dichiara invece Sandro Cavaliere, amministratore giudiziario dell'azienda sequestrata a una cosca locale. I motivi? "Sempre gli stessi – continua Cavaliere – a partire dall'aumento dei costi del personale per la regolarizzazione avvenuta dopo il sequestro. Contributi non versati, Iva ed Irpef non completamente pagate. In sostanza si è dovuto affrontare un incremento del costo del lavoro di circa il 60 per cento. Non solo. Anche le banche ci hanno riservato trattamenti molto più penalizzanti rispetto alla gestione criminale e i fornitori non hanno più concesso dilazioni di pagamento".

L'impegno del Governo
Il sottosegretario all'Interno Giovanni Ferrara conferma che "costituisce urgente impegno del Ministero procedere a una revisione delle norme sui beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e sull'Agenzia che deve occuparsi della loro gestione e destinazione. Occorre ripensare alcune scelte, conservando alcune priorità, quale il riutilizzo dei beni sottratti alla criminalità per fini sociali, ma anche guardando nei limiti del possibile all'impiego di tali beni in termini capaci di produrre reddito. Si impongono soluzioni coraggiose ed innovative, soprattutto in relazione alle aziende confiscate, che riescono a sopravvivere in misura ridottissima sul mercato vero (non drogato dai vantaggi illeciti derivanti dalla intimidazione mafiosa), in tal modo alimentando il falso mito di una criminalità capace di dare lavoro".

Se lo dice anche il Governo il cerchio si chiude. Anzi no: senza rapide modifiche legislative e creditizie – a partire da quelle presentate dall'Inag – la situazione è destinata a deteriorarsi. Le imprese moriranno e migliaia di posti di lavoro saranno bruciati. C'è da giurare che le mafie non attendano altro.

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com

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