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Questo articolo è stato pubblicato il 30 novembre 2012 alle ore 12:36.

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La reazione d'impeto, quella che si legge in questi minuti su tutti i social network, dà per scontato che i nuovi dati Istat sulle forze di lavoro certifichino il fallimento della riforma Fornero. Non c'è da stupirsi visto il soverchiante prevalere dell'emotività sul ragionamento quando si parla di occupazione e disoccupazione nel nostro Paese ed è scontato che fino a stasera, nelle principali trasmissioni televisive, le domande saranno le stesse: serve più o meno flessibilità buona in questa fase economica? Una maggiore o minore facilità di licenziamento per motivi oggettivi?

Chiaro che il ragionamento da fare è tutt'altro e deve partire dalla constatazione che l'economia italiana è sprofondata nella seconda più severa recessione degli ultimi tre anni, con una prospettiva di Pil in contrazione ancora per l'intero 2013. Uno studente universitario alle prese con l'esame di economica politica sa bene quali regolarità empiriche legano il tasso di disoccupazione alla crescita del Pil, quelle che secondo la cosiddetta legge di Okun (nome dell'economista statunitense Arthur Okun, della Brookins Institution) prevedono una diminuzione di un punto del primo quando il secondo aumenta più del suo potenziale (circa il 3%).

Non potrebbe andare diversamente, in una fase come questa, il nostro mercato del lavoro. Con o senza una riforma che, per dispiegare i suoi effetti, avrebbe bisogno almeno di due o tre anni di ciclo normale, come hanno spiegato premi Nobel per l'Economia del calibro di Edmund Phelps o Christopher Pissarides.

Nè vale per consolarsi ricordare che secondo l'Istat il tasso di occupazione totale calcolato tenendo conto anche dell'economia sommersa (oltre quindi le forze di lavoro) è più elevato di circa 2 milioni di unità rispetto a quello ufficiale (10% in più).

La prospettiva è chiara e c'è l'ha ricordata l'Ocse due giorni fa: la disoccupazione è destinata a salire e stabilirsi sopra l'11% fino a fine 2014, con le conseguenze che si possono immaginare sul tasso di disoccupazione strutturale, quello cioè che rimarrà come eredità della Grande contrazione. Che fare dunque? Abbandonare le note enfatiche e analizzare a freddo le evidenze empiriche: l'apprendistato come si muove? E i contratti a termine? E il lavoro in subordinazione, i voucher?

Siccome il nostro ciclo di riforme del mercato del lavoro è in ritardo rispetto a quelli di altri paesi del nord Europa, non possiamo permetterci emozioni. Serve analisi e pragmatismo, flessibilità mentale e capacità di adattamento di questa "materia vivente" che è la politica per il lavoro, un cantiere che dovrebbe essere sempre aperto alle sperimentazioni responsabili e agli aggiustamenti in corsa e chiuso per chi preferisce il megafono della propaganda.

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