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Questo articolo è stato pubblicato il 01 dicembre 2012 alle ore 08:11.

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e Guido Romano
Che molte imprese chiudano durante una lunga recessione è la norma. Che a chiudere siano imprese non più profittevoli, è quanto ci si aspetta.
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Che possano terminare l'attività anche alcune imprese profittevoli pure non sorprende dopotutto qualche azienda chiude anche se ancora genera utili se, ad esempio, muore il proprietario. Ma se fosse questa la ragione le imprese profittevoli che chiudono dovrebbero essere poche e, soprattutto il loro numero non dovrebbe variare tanto con il ciclo. In Italia dall'inizio della grande recessione è successo qualcosa di strano: non è aumentato solo il numero dei fallimenti ma è cresciuto e non poco il numero di imprese con bilanci in attivo messe in liquidazione. Secondo i dati di Cerved Group (dall'inizio della crisi) quasi 40mila imprese sane hanno chiuso volontariamente i battenti nonostante prima della chiusura avessero un buon rating e quindi apparentemente accesso al mercato dei capitali. Inoltre, questo fenomeno è particolarmente accentuato e in forte crescita proprio tra le società già strutturate (assets sopra i due milioni, rating elevato): dall'inizio della crisi si conta un incremento del 43% rispetto ai tre anni pre-crisi.
Se deve preoccupare il fallimento di una impresa perché non riesce più a stare sul mercato ancor di più deve preoccupare la perdita di aziende che invece i profitti li generano. Perché aziende sane chiudono durante questa recessione quando potrebbero continuare facendo profitti? Liquidare una azienda non significa che essa smette di operare. Può essere liquidata e il ricavato investito in una iniziativa ancora più produttiva e questa riconversione può essere fatta anche quando l'azienda è ancora profittevole. Se fosse così dovremmo guardare al fenomeno positivamente: si liquida una azienda redditizia per crearne un'altra ancora più redditizia. Ma è difficile pensare che in Italia ci siano maggiori opportunità di reinvestimento proprio durante la peggior recessione dal 1929. Vi è un'altra possibilità, meno favorevole: queste aziende possono essere liquidate per trasferirle in economie con prospettive di crescita molto più solide di quelle che oggi l'Italia è in grado di offrire.
Guardando avanti, al prossimo quinquennio, si intravvede una ripresa molto lenta e un mercato nazionale che perde terreno rispetto agli altri paesi europei. Stando all'Fmi alla fine del 2018 il Pil dell'Italia avrà appena recuperato il livello del 2008, perso 10 punti percentuali rispetto a quello dei Paesi europei e molto di più rispetto alle economie emergenti. Su orizzonti più lunghi l'Ocse prevede una economia nazionale che perde peso ininterrottamente. Per una impresa che guarda al futuro ciò che conta non è la dimensione corrente del mercato (quella è già saturata dalle imprese che vi insistono) ma la sua futura dinamica. È da questa che emergono prospettive di guadagno che attraggono la localizzazione del l'investimento. È ragionevole che la riallocazione di imprese italiane profittevoli verso mercati più dinamici avvenga più intensamente proprio durante questa recessione perché ha rivelato in modo ancora più netto l'esistenza di un grave gap di crescita del nostro Paese.
Un esempio di questa logica è la scelta della Fiat di puntare sul mercato americano e disinvestire in Italia. Ma altri se ne possono fare relativamente ai mercati emergenti del Sud America o dell'Estremo Oriente. Non solo questi Paesi offrono solide prospettive di crescita ma danno anche accesso al mercato dei capitali per finanziare l'investimento. In altre parole, la stretta creditizia in patria sta velocizzando il processo di liquidazione in Italia e riapertura all'estero. Infine, la riallocazione geografica, è oggi resa più facile dai bassi costi di spostamento e di mobilità dei fattori e delle merci rispetto a quanto accadeva alcuni decenni fa. Questa potenziale spiegazione di quello che sta avvenendo è corroborato anche dal fortissimo calo degli investimenti esteri durante questa recessione, diminuito in Europa del 19% ma crollato in Italia del 53%.
Non può sfuggire il pericolo che il Paese corre se non si inverte questo fenomeno. La carenza di prospettive di crescita spinge le imprese sane a lasciare e scoraggia l'ingresso di imprese estere che non percepiscono l'Italia come attraente. Di questo secondo fenomeno, la carenza di investimento estero diretto già sapevamo. Oggi abbiamo evidenza anche del primo. Ma la scomparsa delle imprese sane rafforza il declino perché sono proprio queste che innovano, che creano e alimentano la crescita della produttività. La scarsa crescita caccia le imprese buone e la loro fuoriuscita spegne il motore della crescita. Un maledetto e pericoloso circolo vizioso. Bloccarlo deve essere al centro dell'agenda di politica economica.
Luigi Guiso
Guido Romano

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