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Questo articolo è stato pubblicato il 06 dicembre 2012 alle ore 06:38.

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I ribelli si avvicinano a Damasco, il segretario di stato americano Hillary Clinton afferma che la caduta di Bashar Assad è vicina mentre il quotidiano israeliano Haaretz, citando un viaggio del viceministro degli Esteri Faisal Al Miqdad in Venezuela, Ecuador e Cuba, sostiene che il raìs avrebbe preso contatti per ottenere asilo politico. C'è anche il timore delle armi chimiche che ha portato la Nato a schierare i Patriot in Turchia: secondo la Clinton il regime «alla disperazione» potrebbe usarle, il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon ha scritto una lettera al presidente siriano per avvertirlo che impiegarle «sarebbe un crimine con conseguenze disastrose».
Dittatori all'ultimo atto: ogni volta, ci interroghiamo su quale sarà l'epilogo e su cosa accadrà dopo. Poche in questi anni le previsioni azzeccate.
Siad Barre a Mogadiscio, Milosevic a Belgrado, Saddam Husssein a Baghdad, Mubarak al Cairo, Ben Ali a Tunisi, Gheddafi a Tripoli e ora Bashar Assad a Damasco: ogni volta che un autocrate sta per crollare, nei racconti dei media c'è sempre un aereo pronto al decollo verso un esilio ospitale. Non sempre però le cose vanno come si immaginano. Siad Barre tagliò la corda per finire i suoi giorni in Arabia Saudita dove _ ma forse non è un caso _ si è esiliato anche Ben Alì. Ben Alì lasciò la Tunisia verso sera, con la folla in Avenue Bourghiba, Saddam non ha abbandonato l'Iraq ed è finito sulla forca lanciando maledizioni contro gli sciiti che lo impiccavano, Gheddafi è stato linciato alla Sirte.
A Bashar Assad tocca la sorte di tutti i dittatori: sono pochi i Paesi ospitali, soprattutto quando ci sono delicate relazioni da preservare con la comunità internazionale. Gli autocrati, soprattutto se inseguiti da mandati della corte penale internazionale, sono ospiti scomodi. Per farla franca come il presidente Bashir in Sudan, condannato all'Aja per crimini di guerra, devono restare avvinghiati al potere. Quando poi i raìs sono arabi ci sono quasi sempre interessi legati al petrolio: chi vuole inimicarsi i padroni dei pozzi di oro nero e di gas? Forse non è un caso che si siano involati per Riad Siad Barre e Ben Alì: né la Somalia né la Tunisia hanno risorse strategiche e l'Arabia Saudita, maggiore produttore di petrolio, è un alleato degli Usa. Milosevic venne consegnato al tribunale dell'Aja perché i serbi speravano negli aiuti internazionali. Si arrese in una Belgrado indifferente: oggi Tomislav Nickolic, uno dei suoi consiglieri, è diventato presidente.
I dittatori come Assad sono certamente responsabili di quanto è accaduto nel loro Paese ma non è sempre agevole spiegare come interi stati alla loro dipartita si disintegrino. Gli autocrati arabi hanno utilizzato mezzi brutali ma hanno avuto per molti decenni volenterosi collaboratori nella comunità internazionale. Saddam - per citare un regime baathista come quello siriano - attaccò l'Iran con il beneplacito delle potenze occidentali che gli lasciarono massacrare i curdi a colpi di gas nervino senza prounuciare una parola di condanna. A distanza di anni il nodo del Kurdistan resta una questione bollente anche nel nuovo Iraq.
La Siria è un caso emblematico. Assad è consapevole, secondo i russi che lo hanno sostenuto, di non avere alternative: o lascia il potere oppure rischia di finire come Gheddafi. Per altro deve temere anche i membri del clan alauita, i generali che ha lanciato in prima linea contro i ribelli, con i soldati e le milizie degli shabiha: su 27mila ufficiali solo 4mila sono sunniti e meno di duemila hanno disertato. Molti di loro non possono andarsene dalla Siria e la fuga del capo potrebbe essere interpretata come un tradimento.
L'ipotesi di un colpo di stato nel tentativo di preservare almeno una parte del potere non è da escludere. Con o senza Bashar gli alauiti potrebbero non arrendersi subito ma tentare di formare una linea di resistenza nelle città e nelle aeree sotto il loro controllo rendendo assai complicato e sanguinoso il dopo Assad.
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