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Questo articolo è stato pubblicato il 09 dicembre 2012 alle ore 14:53.

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Dohu è appoggiato al bancone di un piccolo alimentari nell'androne del primo piano. In vendita espone dentifrici e pomodori, tessere telefoniche e cipolle, accostati con lo stesso caos policromo e pulsante dei mercati africani: «Ci vedi? Tutti noi qui siamo sbarcati a Lampedusa, poi siamo passati per qualche CARA (Centri di accoglienza richiedenti asilo, ndr) in giro per l'Italia, e ora ci ritroviamo in questo palazzo. Viviamo alla giornata», e indica gruppetti di gente intorno a lui, sparpagliati in giro per il primo piano. Dohu vive insieme ad altre ottocento persone in un edificio occupato nella periferia sudorientale di Roma, che un tempo ospitava una sede dell'Università di Tor Vergata e che oggi tutti chiamano Palace Selam. Gli inquilini sono di quattro nazionalità: somali, sudanesi, eritrei, etiopi. Gente arrivata in Italia attraverso gli sbarchi disperati a Lampedusa. Tutti hanno in mano un permesso di soggiorno per motivi umanitari: «Veniamo da paesi in guerra. Appena arrivati nei CARA ci hanno concesso la richiesta di protezione internazionale, poi però la nostra odissea non è mai finita. Quando ci hanno mandato fuori, dove potevamo andare?», continua Dohu. Alla sua sinistra, oltre una immensa vetrata, la periferia di Roma balugina fra insegne dei centri commerciali e fari di macchine che scorrono veloci. Palazzo Selam si trova alla Romanina, in una zona isolata e dimenticata oltre il raccordo anulare.

Intorno ci sono solo parcheggi e palazzi di vetro e cemento.
I primi rifugiati sono arrivati nell'ex sede dell'Università di Tor Vergata durante gli anni del sindaco Veltroni. Nel 2006 l'amministrazione capitolina decide di pagare affitto e luce a Enasarco, società proprietaria dell'immobile e, di fatto, l'occupazione viene legittimata. Poi però la situazione si aggroviglia. Nel 2007, dopo l'interessamento dell'allora ministro al welfare Paolo Ferrero, si decide di trasferire i rifugiati in centri di accoglienza più consoni, ma le trattative si arenano quando agli occupanti viene negata la possibilità di visitare le loro future sistemazioni. Ne nasce un muro contro muro e la comunicazione fra gli abitanti del palazzo e i rappresentanti delle istituzioni si interrompe.

Da allora il numero degli occupanti è cresciuto anno dopo anno, nell'oblio delle istituzioni, finché questa estate il caso di Palace Selam è stato preso d'esempio dal commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, venuto in Italia per esaminare la condizione dei rifugiati nel nostro paese. Nel suo report finale Muiznieks critica a chiare lettere lo stato di emarginazione dei richiedenti protezione internazionale e il cattivo funzionamento del nostro sistema di accoglienza, definito troppo disomogeneo e lacunoso. Fra gli esempi citati dal commissario, spicca proprio quello di Palace Selam. Qui, scrive Muiznieks, ottocento persone vivono abbandonate a loro stesse, con un bagno ogni 250 inquilini e senza nessun servizio di assistenza sociale. «L'Italia è relativamente generosa nel concedere lo status di rifugiato, poi però fa ben poco di più», ha commentato Muiznieks al Financial Times, in un lungo articolo che il quotidiano inglese ha dedicato proprio al caso di Palace Selam. L'unica presenza italiana all'interno dell'edificio occupato arriva da Cittadini del mondo, Onlus che un giorno alla settimana allestisce un ambulatorio per i rifugiati, con consulenze, campagne di vaccinazione, visite di primo intervento. «Ma non solo - spiega la dottoressa Antonella D'Angelo, presidente della Onlus e medico –. Facciamo anche sportello sociale. Ci siamo presto resi conto che è un servizio indispensabile. Aiutiamo così i rifugiati a districarsi nel labirinto di norme burocratiche: li indirizziamo ad esempio al centro per l'impiego, spieghiamo loro come fare l'esenzione dai ticket se disoccupati, come ottenere la residenza e altro ancora. Il lavoro è immenso e non c'è nessuno degli enti pubblici che venga ad aiutare queste persone».

Oggi Palazzo Selam cerca di autoregolarsi attraverso un consiglio interno formato da otto persone, due per ogni etnia. Nelle assemblee si discute dei problemi e si cerca di pacificare le liti. Fra i sette piani dell'edificio, con le sue mille finestre di vetro azzurro, non c'è traccia di microcriminalità, anzi la convivenza appare serena. Ma il palazzo, abbandonato a se stesso, perde i pezzi, fra vetri rotti e cavi degli allacci elettrici abusivi che penzolano sospesi da tutte le parti. Da quando è iniziata l'occupazione vera e propria, le bollette non vengono più pagate e luce e gas sono stati staccati. Ci sono donne e bambini che vivono stipati in piccoli uffici trasformati in mini appartamenti. A luglio, mentre il caldo era più soffocante, Enasarco ha staccato per tre giorni l'acqua.

Le condizioni igienico-sanitarie peggiorano. Aumentano le malattie respiratorie e cutanee, dalle dermatiti alla scabbia. Si diffondono le patologie gastroenteriche causate dallo stress. C'è chi si porta ancora dentro gli shock della guerra, della tortura o del viaggio in mare, e chi inizia ad avere paura del futuro. «Una casa vera non me la posso permettere con la paga che ho - spiega Joseph, un somalo che fa il carpentiere -. Qui almeno ci aiutiamo a vicenda. Chi non ha un lavoro, sopravvive grazie all'aiuto dei più fortunati. Fuori da questo palazzo chissà cosa ne sarebbe di noi».

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