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Questo articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 2012 alle ore 08:41.

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Le polemiche scoppiate intorno all'iter parlamentare di riforma dello strumento militare italiano sono incentrate soprattutto sull'entità dello stanziamento previsto per la Difesa nei prossimi 12 anni (230 miliardi di euro) e sull'autonomia dei vertici militari nell'utilizzo delle risorse determinata dalla delega al Governo e ritenuta eccessiva dagli ambienti pacifisti.

La riforma messa a punto dal ministro Giampaolo Di Paola ha perso per strada la possibilità che la Difesa venda direttamente a Paesi terzi mezzi ed equipaggiamenti surplus delle nostre forze armate e si basa essenzialmente sulla riduzione di 30 mila militari e 10 mila civili a parità di stanziamenti per poter ridistribuire i fondi oggi assorbiti per quasi il 70 per cento dalle retribuzioni al personale. In concreto non vi saranno risparmi nelle spese militari (su questo aspetto si concentrano le critiche dei pacifisti) ma una ridistribuzione della spesa che dovrebbe consentire in futuro di ridurre lo strumento militare per aumentare efficienza e capacità operative. A ben guardare i 230 miliardi spalmati su 12 anni significano 19,16 miliardi annui, cifra inferiore ai 19,96 miliardi del bilancio di quest'anno e ai 20.93 stanziati per il 2013 che scenderanno probabilmente a 20,7 per effetto della legge di stabilità.

Altre critiche, provenienti soprattutto dal Pd, sottolineano come questa riforma non sia partita dall'analisi e dalla dettagliata definizione delle esigenze militari del Paese, sulle quali poi modellare uno strumento militare aggiornato. In pratica riformiamo le forze armate ma per fare cosa? Nuove missioni di pace sotto la bandiera dell'Onu come quella libanese, guerre contro-insurrezionali di tipo afghano o conflitti convenzionali come quello libico? La questione costituisce un punto centrale di ogni "strategic review" elaborata nei Paesi occidentali ed è proprio su grandi temi di indirizzo che si continuano a concentrare le contraddizioni della Difesa italiana. Il 28 novembre scorso il Consiglio Supremo di Difesa ha confermato l'esigenza «di approvare la Riforma entro l'attuale legislatura», di «ridurre gli organici nei tempi previsti» e di garantire «un regolare flusso dei reclutamenti». L'organismo presieduto dal Capo dello Stato ha «convenuto sull'esigenza che le Forze Armate italiane restino comunque pronte a fornire nuovi contributi ad interventi militari della Comunità Internazionale, qualora se ne evidenziasse la necessità».

Un riferimento ai possibili sviluppi della crisi siriana dove l'Onu vorrebbe inviare una forza di pace? O a un intervento contro i qaedisti in Malì? Di fatto l'Italia non tratteggia con chiarezza obiettivi, priorità e soprattutto casa chiedere in futuro ai militari ma ci sui limita a mantenere la capacità di rispondere alle richieste della comunità internazionale, cioè a fare ciò che ci chiederanno Usa, Nato, Onu o Ue. La necessità di mantenersi pronti a nuove missioni oltremare, raccomandata dal Consiglio Supremo di Difesa, cozza però con la distribuzione delle risorse del bilancio delle forze armate (Funzione Difesa) che nel 2013 disporrà di 800/1.000 milioni in più di quest'anno concentrati tutti sull'acquisizione di nuovi mezzi, armi e materiali mentre l'unica voce che subirà (ancora) tagli è quella dell'Esercizio che finanzia i costi di gestione delle infrastrutture, la manutenzione, il rifornimento di mezzi ed equipaggiamenti e l'addestramento. Come si può chiedere alle forze armate di restare «pronte a fornire nuovi contributi ad interventi militari» quando si riducono a 1,33 miliardi (erano 1,52 quest'anno) i fondi per l'Esercizio? Considerato che i costi fissi di basi e caserme sono incomprimibili i tagli si ripercuoteranno sull'addestramento (ormai un miraggio per molti reparti) e persino sulla possibilità di fare il pieno a navi, aerei e mezzi molti dei quali vengono già da tempo sotto utilizzati o immagazzinati o non sono operativi per mancanza di manutenzione. Meglio sarebbe stato distribuire meglio quel miliardo in più stanziato per il 2013 invece di assegnarlo totalmente all'acquisto di mezzi nuovi che non avremo i soldi per impiegare. Eppure la Nota Aggiuntiva al Bilancio della Difesa ammette che «il deterioramento della capacità operativa assumerà a breve termine (uno o due anni) profili di particolare criticità».

Un altro punto fortemente contraddittorio riguarda l'integrazione militare europea, tema finora piuttosto evanescente con l'eccezione del comparto dell'industria della Difesa. A fine febbraio Di Paola disse in un'audizione di presentazione della riforma presso le commissioni congiunte difesa di Camera e Senato che «oggi non esiste di per sé un modello di difesa europeo, non voglio sembrare irriverente ma se aspettiamo il modello di difesa europeo la nostra revisione non la faremo prima di enne anni». Nello stesso consesso il 6 dicembre il ministro ha sottolineato «l'importanza di una politica di sicurezza» comune dicendo che «non è possibile un reale processo di integrazione europea senza una crescita, un approfondimento della dimensione di difesa e sicurezza dell'Unione europea». Per Di Paola il tema è di tale importanza che già nel Consiglio europeo della prossima settimana «per la prima volta ci sarà un grosso capitolo sulle dimensioni della difesa e della sicurezza in Europa». Di Paola ha spiegato che l'Italia ha sviluppato un documento dal titolo More Europe nel quale si sottolineano «cinque aspetti fondamentali per la dimensione europea di Sicurezza e Difesa: impegno, capacità, connettività, connessione, approccio comprensivo».

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