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Questo articolo è stato pubblicato il 18 dicembre 2012 alle ore 08:31.

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di Francesco Sisci Dopo mesi di tensione che cresceva ma non esplodeva, sono decisamente a una svolta i delicatissimi rapporti tra Cina e Giappone, incagliati da mesi sulle rocce delle contestate isole Senkaku. Non è chiaro però se il futuro sarà per il meglio o il peggio.
Infatti il trionfo del partito conservatore, i liberal democratici (LDP) al voto di domenica in Giappone porteranno alla premiership Shinzo Abe, uomo che in campagna elettorale non ha fatto mistero di volere una linea dura sulle Senkaku.
I segni dei mercati sono contraddittori, la Borsa si è impennata e lo yen nipponico è precipitato, indicazione della diversità del clima dentro e fuori l'arcipelago. Infatti, dall'altra parte del mare, verso occidente, Pechino non ride. L'ufficiale agenzia di stampa "Nuova Cina" dichiarava che la vittoria dell'Ldp era dovuta ai poveri risultati economici del partito democratico, Dp, finora al governo. D'altro canto Pechino non ignora che in realtà proprio la tensione con la Cina ha aiutato la causa conservatrice dello LDP.
Un effetto simile c'era stato negli anni '90 con Taiwan, l'isola di fatto indipendente ma formalmente parte di un'unica Cina. Allora le ripetute minacce di Pechino contro una dichiarazione unilaterale di indipendenza dalla Cina avevano aiutato a portare al potere proprio la formazione favorevole all'indipendenza, il partito democratico progressista, Dpp.
A oltre un decennio di distanza sembra che Pechino abbia commesso lo stesso errore con Tokyo. Con Taiwan fu l'attuale presidente Hu Jintao a invertire la rotta.
Tese la mano, mise a tacere le minacce e riuscì a creare e consolidare i rapporti oggi ottimi con i partiti dell'isola. Non è chiaro perché Pechino, divenuta astuta, con Taiwan abbia ripetuto i vecchi errori con il Giappone.
In effetti il cambiamento di politica con Taiwan avvenne dopo un lungo processo interno che mise in un angolo i conservatori di Pechino. La tensione con il Giappone o con altri paesi dell'Asean sulle isole del Mar cinese meridionale, arrivava invece in un momento di delicatissima transizione politica a Pechino, conclusasi con il 18° congresso del partito a novembre. Inoltre tali questioni di confine marittimo hanno una dimensione nuova e pongono problemi inconsueti in Cina.
C'era poi un altro elemento. Pechino sapeva che trattare con Tokyo prima delle elezioni poteva essere inutile, visto che ogni eventuale accordo con il governo passato poteva essere respinto dal governo dopo il voto come una svendita degli interessi nazionali. Così, come nei soliti giochi di ombre di queste parti, ora Pechino è pronta a trattare visto che a Tokyo c'è una leadership chiara e stabile.
Secondo la Nuova Cina, l'Ldp, con oltre mezzo secolo di governo del Giappone «ha più esperienza del partito democratico nel gestire questioni internazionali e sarà più pragmatico e flessibile nella sua politica estera».
I termini della trattativa per la Cina non sono certo morbidi. Ieri i giornali cinesi sottolineavano che il Giappone non ha questioni territoriali solo con Pechino ma anche con Seoul, per le contese isole Takeshima.
Infatti, quello che Pechino teme più della contestazione sulle isole riguarda una revisione della costituzione imposta al Giappone dopo la seconda guerra mondiale. Una tale revisione toglierebbe i limiti attuali di spese militari all'arcipelago e intensificherebbe la corsa al riarmo già in atto nella regione.
La Cina è il maggiore partner commerciale e mercato esportatore del Giappone e i commerci sono crollati dell'11,6% dall'inizio delle frizioni.
Pechino pensa però che l'ultima parola sulle Senkaku riguardi Washington, che quest'anno ha promesso di spostare il suo baricentro strategico in Asia. Pechino vorrebbe quindi segnali di distensione dagli Usa che possano mettere Tokyo sotto pressione. L'appuntamento è prossimo. Abe ha già detto che la sua prima visita estera sarà in America e Pechino sarà attentissima di vedere che messaggio Tokyo porterà e riceverà da Obama.
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