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Questo articolo è stato pubblicato il 02 gennaio 2013 alle ore 06:36.

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«L'Irlanda può fornire speranza e ispirazione a un'Europa che ne è disperatamente a corto». Nelle parole di Gavin Barrett, professore di diritto comunitario allo University College di Dublino, c'è forse la sintesi dello stato d'animo con cui il Paese assume la presidenza dell'Unione europea. Un semestre in cui le sfide dell'Eurozona, impegnata a mettere a punto una nuova architettura istituzionale in grado di contrastare la crisi del debito e prevenire i rischi futuri, si intrecceranno con quelle dell'Irlanda: completare il percorso di risanamento e uscire dall'ombrello protettivo offerto dai creditori internazionali, tornando a finanziarsi autonomamente sui mercati.
«La presidenza irlandese - sottolinea ancora Barrett - può rafforzare la convinzione che anche gli Stati sottoposti a salvataggio possono riprendere il loro posto nel firmamento europeo». Parole che riecheggiano quelle del premier Enda Kenny, in un'intervista all'agenzia Reuters. «Speriamo di essere il primo Paese a uscire da un bailout nel 2013. Ma è davvero necessario che ci venga concesso il sostegno promesso».
Il riferimento è a un alleggerimento dell'enorme fardello del debito bancario: 64 miliardi che pesano sui conti dello Stato che si fece carico, allo scoppio della bolla immobiliare, degli enormi passivi degli istituti. Da allora l'Irlanda è stata costretta a chiedere aiuto a Ue ed Fmi - 67,5 miliardi in tre anni concessi a fine 2010 - e ad accettare un faticoso programma di risanamento. Misure di austerity già costate 25 miliardi di sacrifici (a cui si aggiungeranno i 3,5 del nuovo budget varato a fine anno), che però non hanno piegato il Paese, capace di ridurre il deficit dal 30% all'8,2% nel 2012 (per il 2013 l'obiettivo è il 7,5%), di tornare a crescere, seppur di poco (+0,5-0,9% nel 2012, a seconda delle fonti) e di ottenere il plauso della troika dei creditori internazionali e il riconoscimento dei mercati, dimostrato dal netto calo dei rendimenti obbligazionari e dal successo delle aste di titoli a breve effettuate quest'estate. «Sono stati molto bravi - conferma Fabio Fois, economista per il Sud Europa di Barclays - nell'attivare azioni di politica fiscale a cui gli irlandesi hanno reagito bene. Hanno il vantaggio di aver mantenuto la corporate tax al 12,5% e continuano ad attrarre investimenti».
Restano una disoccupazione troppo alta (14,6% a novembre) e un debito proiettato a superare il 120% del Pil nel 2013. Da qui la trattativa che Dublino conduce su un doppio fronte: con la Bce, per rinegoziare le "promissory notes", pagherò cambiari internazionali per un ammontare di 31 miliardi emessi dallo Stato nel 2010 a garanzia delle fallite Anglo Irish Bank e Irish Nationwide, che - senza una revisione dei termini di pagamento - finirebbero per costare 15 miliardi in più solo di interessi; con l'Europa, per ottenere un seguito alla promessa, a dire il vero un po' ambigua, racchiusa nelle conclusioni dell'Eurogruppo di fine giugno, quando si profilò per la prima volta la possibilità di utilizzare il fondo salva-Stati Esm per una ricapitalizzazione diretta delle banche e si fece intendere che il caso irlandese sarebbe stato considerato con attenzione. Creando così l'aspettativa di una ricapitalizzazione retroattiva degli istituti da parte dell'Esm, con conseguente alleggerimento del debito pubblico di Dublino.
Su questo secondo punto però tutto sembra rimandato al 2014, quando entrerà in vigore la vigilanza bancaria unica.
E gli adempimenti legati all'unione bancaria saranno anche tra i temi centrali dell'agenda europea di Dublino. «L'importanza della presidenza - spiega ancora Gavin Barrett - è minore che in passato, perché ora c'è un presidente permanente del Consiglio europeo, un Alto rappresentante per la politica estera, un presidente dell'Eurogruppo. Il successo oggi si giudica in termini di competenza, serietà e risultati ottenuti». Gli obiettivi dell'Irlanda sono ambiziosi, come ricorda ancora Barrett: «Innanzi tutto il budget 2014-2020, su cui sono stati fatti progressi ma resta ancora molto lavoro da fare, anche sulle numerose iniziative legislative da adottare dopo un'intesa; un accordo sulla riforma della Pac, la politica agricola comune; l'attuazione dell'unione bancaria».
A questi si aggiungono due obiettivi indicati dal ministro per gli Affari europei, Lucinda Creighton: uno più concreto e mirato al business, far avanzare l'agenda digitale, con particolare riferimento alle transazioni economiche cross-border; l'altro di più ampio respiro politico, fungere da ponte tra il Regno Unito, sempre più euroscettico, e l'Europa.
Di europeismo gli irlandesi sembrano avere ancora una buona scorta, se è vero il quadro fotografato dall'ultima indagine Eurobarometro: nonostante i sacrifici imposti, il 67% della popolazione è a favore dell'euro, contro una media del 53% nell'Eurozona. Come se il Paese ancora fosse riconoscente a quella Ue dove, 40 anni fa, entrò come Cerentola (era il più povero degli Stati membri) per poi trasformarsi, anche grazie all'Europa e ai suoi fondi, nella Tigre celtica.
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