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Questo articolo è stato pubblicato il 11 gennaio 2013 alle ore 06:40.
PALERMO
Politici, mafiosi e carabinieri. Sembra quasi la rappresentazione romanzata del potere mafioso d'altri tempi. E invece no. Per il sostituto procuratore antimafia di Palermo Nino Di Matteo politici, carabinieri e mafiosi hanno lavorato affinché lo Stato e Cosa nostra si mettessero d'accordo «in nome di una inconfessabile ragion di Stato». Politici, mafiosi e carabinieri hanno portato avanti un'infame trattativa di cui non si doveva parlare e che è stata e continua a essere negata. A costo di beccarsi un'accusa di falsa testimonianza, come è accaduto per l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Da una parte i rappresentanti dello Stato che avevano interesse a fermare le stragi subito dopo la strage di Capaci in cui morì Giovanni Falcone, dall'altra i mafiosi che avevano interesse a eliminare il 41bis, il regime del carcere duro, in mezzo intermediari di varia natura. Una trattativa che, ha spiegato il pm, nata «da un input politico», doveva andare avanti a tutti i costi e provocare poi conseguenze devastanti, rafforzando «negli uomini della mafia il convincimento che le bombe pagano» e determinando «la scelta della linea terroristica e un parziale cambiamento degli obiettivi da eliminare che non sono più i politici ma coloro i quali sono da ostacolo alla trattativa». Come il magistrato Paolo Borsellino.
Al termine di quasi due giorni di requisitoria a porte chiuse Di Matteo dopo aver ricostruito i vari passaggi e le varie responsabilità in questa vicenda ha chiesto al giudice per le indagini preliminari Piergiorgio Morosini il rinvio a giudizio per 11 dei 12 soggetti accusati: stralciata la posizione di Bernardo Provenzano in precarie condizioni di salute, che verrà giudicato il 23 gennaio. In questi due giorni hanno parlato anche due protagonisti di rilievo di quei fatti: il pentito Giovanni Brusca che ha accusato la sinistra di essere a conoscenza dei fatti e il boss Leoluca Bagarella, accusato di aver cercato contatti con Silvio Berlusconi attraverso Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri: il cognato di Riina ha negato di aver avuto contatti con i politici e di aver pronunciato la frase «i patti si rispettano» riferendosi a presunti accordi.
La richiesta di Di Matteo, affiancato dai magistrati Lia Sava, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, riguarda i quattro capimafia corleonesi: oltre a Bagarella, Totò Riina, Giovanni Brusca e Antonino Cinà. Ci sono poi tre politici: l'ex ministro democristiano del Mezzogiorno, Calogero Mannino (accusato di violenza o minaccia a corpo politico dello Stato, ha chiesto di essere processato con rito abbreviato e il gup si è riservato di pronunciarsi), il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino. Chiesto il rinvio a giudizio anche per tre ufficiali del Ros dei carabinieri (i generali Mario Mori e Antonio Subranni e l'ex colonnello Giuseppe De Donno), e per Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo, Vito, che risponde, oltre che della trattativa, di concorso in associazione mafiosa e calunnia aggravata. I reati contestati sono di attentato, con violenza o minaccia, a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato, il tutto aggravato dal l'aver agevolato Cosa nostra.
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CONCLUSIONI A CONFRONTO
La richiesta della procura
Il pm di Palermo Nino Di Matteo ha chiesto il rinvio a giudizio per 11 persone tra capimafia, carabinieri e politici che avrebbero avuto un ruolo nella trattativa Stato-mafia
Le conclusioni di Pisanu
Per il presidente della commissione Antimafia Beppe Pisanu i vertici istituzionali dello Stato non furono coinvolti nella trattativa Stato-mafia. E sul 41bis parla di «tacita e parziale intesa»