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Questo articolo è stato pubblicato il 12 gennaio 2013 alle ore 08:11.

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La svalutazione dello yen è una componente decisiva del pacchetto di stimolo annunciato ieri dal nuovo premier giapponese Shinzo Abe, nel tentativo di far uscire l'economia da una stagnazione che dura dagli anni Novanta.


Secondo calcoli di Barclays Capital, un deprezzamento di 10 yen sul dollaro può favorire una maggior crescita dell'1% in tre anni, attraverso un rilancio dell'export. Ma l'intervento di Abe rischia di aprire anche un nuovo capitolo nella "guerra delle valute" (per usare la fortunata espressione del ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega) che ora preoccupa anche le autorità dei Paesi industriali. Una guerra dalla quale chi potrebbe uscire con i danni più gravi è l'area dell'euro.
Il Giappone sta cercando di promuovere una svalutazione dello yen (che, secondo la maggior parte delle analisi, è largamente sopravvalutato soprattutto nei confronti dei suoi concorrenti asiatici) per rilanciare il proprio export e lo farà, tra l'altro, acquistando massicciamente titoli emessi dal fondo salva-Stati europeo Esm, quindi contro euro.
L'iniziativa del nuovo Governo di Tokyo si somma alla politica nettamente espansiva della Federal Reserve, che, seppure non indirizzata esplicitamente al cambio, ha comunque l'effetto di favorire un deprezzamento del dollaro, soprattutto ora che è venuta meno la ricerca nella valuta Usa di un rifugio sicuro contro la possibile disintegrazione dell'euro, in seguito all'intervento, per ora solo verbale, del presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi. Era stata la seconda ondata del "quantitative easing" della Fed nel 2010 (siamo ora alla terza, e qualcuno a Washington sta cominciando a chiedersi se non sia ora di dire basta) a convincere Mantega a battezzare la "guerra delle valute". Un tema sul quale è poi tornato più volte, parlando anche di "protezionismo monetario". Con i tassi d'interesse negli Usa ai minimi, il dollaro è diventata la moneta favorita per i carry trade, che consentono di indebitarsi a basso costo e reinvestire in monete ad alto rendimento, come appunto quelle dei Paesi emergenti. Mettendone così fuori gioco, però, le esportazioni.
In realtà, il Brasile stesso non è rimasto con le mani in mano, rispondendo prima con l'introduzione di controlli sugli ingressi di capitale, poi con tutta una serie di misure, tra cui il taglio progressivo di 500 punti base dei tassi d'interesse, per indebolire il real, che è oggi infatti un buon 15%, in termini reali, al di sotto del picco della primavera 2011 ed è tornato, contro il dollaro (il cambio più tenuto d'occhio in Brasile), sui valori del 2007 in termini nominali. Con il Governo Rousseff, anche le autorità brasiliane vedono un cambio deprezzato come un elemento essenziale del rilancio della crescita, ripudiando il regime di flessibilità che era stato alla base della politica economica precedente. E, fra i Paesi emergenti, la Cina, che negli ultimi due anni ha ripreso a far apprezzare il cambio, resta comunque nel mirino come potenziale "manipolatore", soprattutto negli Stati Uniti.
Fra i Paesi industriali, la posizione più netta è stata assunta dalla Svizzera, che dal settembre 2011 ha imposto un tetto al franco ed è intervenuta ripetutamente e pesantemente per tenerlo al di sotto di questo limite. Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra.
La progressiva escalation della guerra delle valute non è sfuggita al governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, il quale in un recente discorso ha sottolineato la preoccupazione che nel 2013 si assista a una crescita di cambi «gestiti in modo attivo» in alternativa all'uso della politica monetaria. Il governatore della Fed di Philadelphia, Charles Plosser, ha osservato ieri che «non è un'evoluzione salutare».
In tutto questo, l'euro, che nel 2012 ha riguadagnato terreno come effetto collaterale dell'azione di Draghi per impedira la rottura dell'euro e come conseguenza del differenziale nei tassi d'interesse che permane nei confronti della altre maggiori valute, difficilmente potrà rappresentare uno stimolo per l'economia europea nel 2013. Nella sua conferenza stampa di questa settimana, il presidente della Bce ha ricordato che il cambio è un elemento importante nella valutazione economica dell'Eurotower, ma non è un obiettivo della sua politica e anche che i livelli del cambio reale e del tasso effettivo dell'euro sono sulla media di lungo periodo. Ma ha anche sottolineato «l'impegno solenne» del G-20 a evitare disallineamenti persistenti dei cambi e a evitare svalutazioni competitive. Un impegno che al momento non tutti i firmatari sembrano disposti a rispettare.
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