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Questo articolo è stato pubblicato il 13 gennaio 2013 alle ore 15:21.
NAQURA - La prima boa è davanti alla base "1.32 Alfa" dei soldati italiani di Unifil, nel Libano meridionale, a poche decine di metri dalla costa. Le luci intermittenti delle altre sette si perdono verso l'orizzonte, nel buio crescente del tramonto. Una vedetta israeliana pattuglia quel presidio marittimo come per affermare il possesso delle acque. Non è una questione di diritti di pesca né di solo orgoglio nazionale. In gioco qui c'è gas per i prossimi 50 anni e oltre.
L'Us Geological Survey ha calcolato che sotto il Mediterraneo al largo delle coste di Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro, esiste un giacimento potenziale da 3.500 miliardi di metri cubi. Non vale le riserve del Qatar (25mila miliardi) ma è abbastanza perché le economie del Levante così vicino alle regioni piene di energia e pure così povero di materie prime, abbiano una spettacolare trasformazione. E abbastanza grande da provocare una nuova guerra arabo-israeliana. In una regione in cui già le frontiere terrestri sono controverse ed evanescenti, si aggiunge la lotta per la conquista di miglia nautiche, longitudini e latitudini.
Il primo giacimento a essere stato scoperto dagli israeliani era stato Tamar: circa 275 miliardi di metri cubi. Ma due anni fa si è aggiunto Leviathan con una quantità provata di gas da almeno 450 miliardi. La Banca d'Israele ha calcolato che se Tamar incomincerà la sua produzione, nel 2013 la crescita israeliana aumenterà di un quarto più del previsto: dal 2,8 al 3,8%. Il monopolio dello sfruttamento, recentemente legittimato dall'antitrust israeliano, è del consorzio guidato dal gruppo Delek del milionario Yitzhak Tshuva e dai texani di Noble Energy.
Il pieno controllo israeliano di Tamar e Leviathan era stato contestato dai libanesi: soprattutto da Hezbollah che per questo aveva minacciato di riprendere il conflitto sospeso nell'estate del 2006. Poi, fatti i suoi calcoli, il governo libanese ha ammesso che i due giacimenti erano nelle acque territoriali israeliane. Solo con Leviathan, con una potenzialità di gas equivalente a 4,3 miliardi di barili di petrolio, e una capacità produttiva di 4 miliardi di metri cubi di gas naturale l'anno, Israele produrrebbe il doppio dell'energia che consuma e che compra all'estero a caro prezzo dopo la sospensione delle forniture egiziane. Ma il business sotto il mare è molto più grande, almeno cinque volte più di quanto garantirebbero Tamar e Leviathan.
Per questo ci sono le boe davanti alla base "1.32 Alfa" dei caschi blu italiani a Naqura: sulla costa, esattamente al confine fra Israele e Libano. L'anno scorso il governo israeliano che non ha mai aderito alla convenzione Onu di Montego Bay sul diritto dei mari, ha unilateralmente allargato l'orizzonte delle sue acque. E senza annunciarlo a nessuno, ha sistemato le otto boe per concretizzare la sua acquisizione. Non come avrebbe legalmente potuto, lungo una linea di 270 gradi in perpendicolare alla costa, ma di 290, impossessandosi di una fetta di mare che il Libano non gli riconosce. Con le boe, Israele mette in discussione sia le acque territoriali libanesi, entro le 12 miglia dalla costa stabilite dalla convenzione di Montego Bay, sia le 100 miglia di "zona economica esclusiva".
Impegnati gli uni dalle loro rivendicazioni nazionali e gli altri dalla guerra civile, palestinesi e siriani non hanno avuto il tempo di prendere posizione contro gli israeliani. Il Libano si: il comportamento di Israele è «un atto di aggressione». Non è facile aprire un negoziato fra due Paesi formalmente in guerra e che non sono d'accordo nemmeno sulle frontiere terrestri comuni.
Comprendendo il pericolo della situazione, l'amministrazione Obama sta cercando una mediazione: qualche mese fa ha offerto a entrambi una nuova definizione delle loro "acque economiche". Gli americani stanno ancora aspettando una risposta dagli interessati.
Troppo grande è l'affare energetico perché prevalga la moderazione. In un'altra realtà geopolitica, Paesi così piccoli con riserve di gas così grandi, avrebbero fatto network: pipeline, porti, impianti per la liquefazione e la rigassificazione in comune. Qui nel Levante è un sogno proibito prevedibilmente per i prossimi 50 anni. Nelle difficoltà della regione, nemmeno Israele riesce a trovare gli investitori internazionali per finanziare l'export di tanto gas.
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