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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2013 alle ore 14:26.

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La primavera araba in Egitto e nel Maghreb entra sanguinosamente nel terzo anno: le popolazioni sono deluse anche dall'Islam politico mentre l'Occidente scruta preoccupato le ripercussioni delle rivolte. Ma a Zamalek, quartiere borghese del Cairo, ieri sembrava un sabato normale: il mondo affluente che frequenta Davos è impermeabile al sentore pesante e rumoroso della miseria. Noi con ritardo ci accorgiamo adesso che la profondità strategica di questi rivolgimenti si spinge ben oltre la sponda Sud e il Levante: nessuno è al sicuro, neppure quelle monarchie del Golfo corteggiate dalle nostre economie balbettanti.

Il contenimento degli effetti rivoluzionari è illusorio. Le nuove democrazie all'islamica devono tenere conto, a differenza dei regimi autocratici, di una variabile in più: il tempo. L'orologio democratico dà appuntamento da un'elezione all'altra e misura impietosamente le promesse del prima con le realizzazioni del dopo, filtrandole con la lente delle aspettative popolari.

Il primo errore è stato considerare l'abbattimento dei vecchi regimi un risultato: era soltanto l'inizio di un processo. Ma c'è un equivoco più grave. La caduta dei raìs non è stata la fine del conflitto sociale ma l'innesco di una battaglia cruenta tra laici e religiosi, tra musulmani tolleranti e radicali, tra maggioranze e minoranze, tra spinte localiste e centralizzazione.
Il problema di fondo è questo: con la scelta di un nuovo modello viene messo in discussione il concetto stesso di unità nazionale espresso dalla decolonizzazione e consegnato per alcuni decenni alla retorica delle dittature.

Non possiamo scommettere che alcuni stati oggi sulla mappa domani ci saranno ancora. Un quadro ideale per l'ascesa dell'islamismo più estremo che con un messaggio radicale si pone come alternativa all'ideologia importata degli stati-nazione.
Insieme all'Islam, l'economia infiamma l'inverno dello scontento. La Libia vive di rendita petrolifera, non si pagano tasse, la democrazia è solo formale, la gente vota per clan e tribù: il meglio che ci si può aspettare è una sintesi tra l'Islam e l'oro nero incoraggiata dalle monarchie del Golfo, che insieme all'intervento armato hanno alimentato gli islamici.

La politica economica resta quella di prima: tre volte nel 2012 sono stati distribuiti sussidi diretti in denaro alle famiglie e ai "tuwwar", i rivoluzionari. Così faceva anche Gheddafi. Dalla spartizione del petrolio non è improbabile che scaturisca la separazione tra Tripolitania e Cirenaica, dove gli occidentali hanno abbandonato Bengasi. Eppure la Libia paradossalmente è un partner economico affidabile: estrae 1,6 milioni di barili al giorno. Più che uno stato una pompa di benzina su un territorio fuori controllo.

L'Egitto, cuore del mondo arabo, è nella situazione più frustrante. I Fratelli Musulmani e il presidente Mohammed Morsi hanno diviso il paese sulla costituzione, affidando l'interpretazione della sharia, la legge islamica, al centro di studi di Al Azhar e puntando al restringimento delle libertà fondamentali. È stato incapace di affrontare la crisi: calo delle riserve estere, rallentamento del Pil per il crollo del turismo e degli investimenti diretti, disoccupazione alta, il 40% della popolazione sotto la soglia di povertà. Il 70% degli stipendi, sottolinea un rapporto della Deutsche Bank, vengono da una burocrazia elefantiaca e corrotta che non basta a produrre 700mila nuovi posti di lavoro l'anno, il minimo necessario per galleggiare sull'onda demografica.

Comprensibili ma incongrui gli appelli di Morsi alla moderazione: corre in braccio agli alleati salafiti e spera nel soccorso finanziario di Riad e del Qatar, oltre che del Fondo.
A Tunisi, dove è cominciata la primavera araba, i Fratelli Musulmani di Ennhada, ispirati dal loro esponente storico Rashid Gannouchi, mostrano il doppio volto dell'ambiguità. Gannouchi nelle interviste cita Gramsci e afferma di combattere l'estremismo, in realtà soprattutto fuori dalla capitale è in corso un attacco sistematico alla libertà delle donne e all'Islam più tollerante, con la distruzione dei mausolei sufi.

Il salafismo non è ancora vincente ma trova seguaci in una nuova generazione di militanti provenienti dal sottoproletariato urbano: nessuno ha visto i 600mila posti di lavoro promessi alle elezioni.
Come è accaduto sotto i regimi dei raìs, l'islamizzazione è alimentata dalla crisi economica e sociale che sta mettendo sotto pressione i nuovi governi post-rivoluzionari. Ma sono le divisioni politiche provocate dai partiti musulmani, da noi frettolosamente paragonati ai democratici cristiani europei, che stanno causando i danni maggiori: la democrazia non richiede che cittadini e partiti condividano la stessa ideologia ma non si può scardinare senza conseguenze la fragile compagine degli stati arabi. Il nazionalismo arabo del secolo scorso è stato sconfitto, così come sono state battute le sue idee progressiste, manipolate dalle dittature, ma l'Islam politico di oggi non si è ancora dimostrato capace di sostituirlo.

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