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Questo articolo è stato pubblicato il 27 gennaio 2013 alle ore 08:16.

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Quando la piazza viene conquistata dagli hooligans della curva, un Paese si deve preoccupare della sua stabilità. A Port Said sono almeno 30 i morti negli scontri con la polizia, dopo che 21 tifosi erano stati condannati a morte per un altro episodio di sangue nello stadio locale, che un anno prima aveva provocato 74 vittime. Sommando quelli di allora a quelli di ieri, per una sola partita fra l'al-Masri di Porto Said e l'al-Ahly del Cairo, sono morte più di cento persone.
Ma non è per il calcio che accadono queste cose, oggi in Egitto. Nel febbraio di un anno fa, quando una inutile e noiosa partita era finita in una battaglia campale, non era stato un arbitro ad aizzare la curva della squadra di casa contro giocatori e tifosi del Cairo: quelli che avevano partecipato alla rivoluzione di piazza Tahrir. C'era evidente la mano dei servizi di sicurezza e della polizia politica legate al regime di Mubarak. Il Mukhabarat oscuro. Mentre si svolgeva la carneficina dentro e fuori dallo stadio, la polizia non aveva mosso un dito. Agli agitatori di allora non è stato difficile ieri diffondere di nuovo il caos, dopo la sentenza dei giudici. Saputo della condanna, una folla di esagitati ha preso d'assalto la prigione di Porto Said con il proposito di liberare i 21condannati. Sono riusciti a uccidere due poliziotti prima che intervenisse l'esercito a respingerli. Oltre ai morti, i feriti sono almeno 300 nella città strategica per l'economia egiziana, all'entrata del canale di Suez, sulla quale ora è stato imposto il coprifuoco.
Questo per quanto riguarda le cronache per così dire sportive. In quelle politiche, nella giornata e nella notte precedenti si erano segnalati altri sette morti e 450 feriti al Cairo e in molte città del Paese: ci sono state manifestazioni in almeno 12 dei 27 governatorati dell'Egitto. L'altro ieri era il secondo anniversario della rivoluzione di piazza Tahrir. Si prevedevano manifestazioni politiche ed era immaginabile che la giornata sarebbe stata tesa. Non sarebbe costato nulla ai giudici posticipare di qualche giorno la dura sentenza nei confronti dei tifosi dell'al-Masri.
È ormai difficile capire chi oggi scenda in strada a manifestare, in Egitto. L'anno scorso in piazza Tahrir, durante la campagna elettorale presidenziale, uno striscione sosteneva semplicemente: «Abbasso chiunque sarà eletto». Ogni rivoluzione scatena illusioni e le illusioni scontento. I ricorrenti e sanguinosi incidenti ferroviari, stradali, sui luoghi di lavoro, dimostrano che l'Egitto lasciato dal regime di Mubarak è logoro. Il partito di Libertà e giustizia è al potere da troppo poco tempo per offrire al Paese segnali di miglioramento. Per chiunque sarebbe difficile governare l'Egitto di oggi: ancora di più per il movimento della fratellanza islamica nato e cresciuto in un'opposizione quasi secolare. Gli errori istituzionali commessi da Mohamed Morsi, il presidente, dimostrano un pericoloso dilettantismo.
Ma la convinzione degli oppositori di poter tenere in piazza una rivoluzione permanente, la divisione e impreparazione dei partiti laici e liberali, non inferiore a quella degli islamisti, sono ugualmente parte di una miscela instabile che può esplodere molto più di quanto non sia accaduto a Porto Said e nelle altre città. L'Egitto sta scivolando in una crisi circolare dalla quale è difficile uscire: la disoccupazione cresce di giorno in giorno, questo provoca l'impoverimento socio-economico dell'intero Paese, il quale mantiene l'instabilità politica a causa della quale è impossibile fare le riforme economiche necessarie per la ripresa.
Chi occupa oggi le piazze dell'Egitto è una comunità eterogenea di scontenti: i giovani con diploma e quelli analfabeti, entrambi senza lavoro; i delusi della rivoluzione, quelli con una motivazione politica; i bulli delle periferie e delle curve degli stadi. Per il vecchio regime che nelle elezioni presidenziali di giugno aveva dimostrato di avere ancora un largo consenso, non è difficile dirigere una piazza così caotica.
L'Esercito non partecipa a questa grande opera di mistificazione. Ha già tentato senza successo di governare il Paese e non vuole tornare a creare un nuovo Scarf, la giunta militare del generale Tantawy. Probabilmente non aspira a un golpe che avrebbe serie ripercussioni interne e soprattutto internazionali, dopo le libere elezioni presidenziali. Non partecipa al complotto ma nemmeno lo impedisce, pur conoscendone l'esistenza. Le forze armate, l'unica entità coesa rimasta all'Egitto, attendono di essere chiamate dai civili esausti o dal popolo ingovernabile, a supervisionare la ricostruzione del Paese. Loro hanno tempo, l'Egitto sempre di meno.
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