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Questo articolo è stato pubblicato il 09 febbraio 2013 alle ore 08:12.

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BRUXELLES. Dal nostro corrispondente
Non passa giorno senza che politici, sindacalisti, imprenditori o commentatori esprimano timori sui rischi della concorrenza internazionale. Molti addirittura flirtano con gli appelli al protezionismo.
In occasione del Consiglio europeo, che ha discusso anche delle trattative in vista di un accordo di libero scambio con gli Stati Uniti, la Commissione ha preparato un rapporto che sfata molti miti e rivela inattese sfaccettature sul peso europeo nel commercio mondiale.
La relazione ha l'obiettivo di difendere la strategia della Commissione che ha fatto dell'Unione «la potenza commerciale più importante a livello globale», come ha detto nei giorni scorsi davanti al Parlamento europeo il presidente dell'esecutivo comunitario José Manuel Barroso. Nonostante la crisi economica e la concorrenza dei Paesi emergenti, la quota dell'Unione delle esportazioni mondiali è rimasta stabile al 20%, mentre è calata la percentuale giapponese o americana.
Più sorprendente il settore manifatturiero, malgrado le chiusure di impianti nell'acciaio o nell'auto, registra un surplus di quasi 300 miliardi di euro, un attivo che dal 2000 è stato moltiplicato per cinque. Poco importa se la bilancia commerciale dell'Unione mostra un piccolo deficit di 74 miliardi di euro, i vantaggi del libero commercio secondo la Commissione sono evidenti.
L'Unione ha una quota del 28% nel reddito globale generato dalla produzione di beni manifatturieri (la Cina è al 16 per cento).
Naturalmente, Barroso ammette che ci sono differenze di competitività tra gli Stati membri. Ma ciò non impedisce all'Italia, un Paese in ritardo su questo fronte, di essere tra i Paesi nei quali tra l'8 e il 10% degli occupati lavora nell'export. C'è di più. Il numero di posti di lavoro nell'industria e nei servizi dedicati alla produzione di beni manifatturieri è salito negli ultimi 15 anni per toccare i 35 milioni, mentre è sceso sia negli Stati Uniti che in Giappone.
Nel suo rapporto, la Commissione mette l'accento anche su come stia cambiando la catena produttiva. Lo stesso iPhone, ideato in California e costruito nel Guangdong, ha un contributo europeo del 12 per cento. In questo senso, la tradizionale differenza tra import ed export non è più valida. Le imprese europee importano per riesportare. Ormai, si legge nel rapporto, «la quota di importazioni dall'estero nelle esportazioni dell'Unione è salita di oltre il 50% dal 1995 per raggiungere il 13 per cento».
Nel contempo, la differenza tra industria e servizi è andata scemando. Il terziario partecipa con una quota del 40% al valore aggiunto del settore manifatturiero. La conclusione dell'esecutivo comunitario è che l'Europa ha bisogno di accordi commerciali, fosse solo perché nei prossimi anni la crescita economica mondiale sarà nei Paesi emergenti e perché la domanda interna nell'Unione rimarrà prevedibilmente debole. Non per altro la Commissione moltiplica i negoziati commerciali.
«Il nostro concetto di reciprocità - spiega l'esecutivo comunitario - ha come obiettivo di aprire i mercati stranieri non di chiudere il nostro». Nel contempo, ammette Bruxelles, «dovremo inevitabilmente accettare una limitata assimetria nelle fasi transitorie». La partita può rivelarsi complicata. Con la Cina, per esempio, non mancano le diatribe su telefonia a solare. Con gli Stati Uniti, i negoziati in vista di un accordo di libero scambio sono stati e saranno irti di ostacoli.
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