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Questo articolo è stato pubblicato il 17 febbraio 2013 alle ore 08:17.

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Tutto è iniziato il 17 febbraio del 2011. Quando a Bengasi una manifestazione di "collera popolare" venne repressa nel sangue. Il vento della Primavera araba aveva da poco travolto i due Paesi vicini, Tunisia ed Egitto. Incalzato dalla rivolta popolare, sette giorni prima il presidente egiziano Hosni Mubarak aveva rassegnato le dimissioni dopo 30 anni di regime. Un mese prima, il 14 gennaio, la rivolta dei gelsomini aveva costretto il presidente tunisino Ben Ali, al potere dal 1987, a prendere la via dell'esilio. In Libia le cose sono andate diversamente. Dopo sole due settimane la protesta contro Muammar Gheddafi si è tramutata in una sanguinosa guerra civile conclusasi solo otto mesi dopo, il 20 ottobre, con la sua morte. Crollava così un regime durato 43 anni.
La guerra contro l'ex raìs era stato il collante che aveva tenuto insieme le diverse anime della rivolta armata. Una volta venuto meno, si temeva che le milizie rivali precipitassero il Paese in una nuova guerra. Ma ciò non è avvenuto. La Nuova Libia è un Paese afflitto ancora da gravi problemi. Ma è come se fosse scissa in due: sul fronte economico vi sono incoraggianti segnali di ripresa, soprattutto per quanto attiene l'industria petrolifera e l'imprenditoria privata. Su quello politico, invece, il Governo versa in uno stato di quasi paralisi. Il risultato più tangibile è il continuo rinvio di una ricostruzione che si annuncia tanto colossale quanto necessaria. La sicurezza, soprattutto in Cirenaica, è a dir poco precaria. Mentre le incognite che avvolgono la stesura della nuova Costituzione non promettono nulla di buono.
Chi vede il bicchiere mezzo pieno guarda con soddisfazione alla ripresa della produzione petrolifera. Nel 2012 la media è stata di oltre 1,3 milioni di barili al giorno (con punte di 1,55 mbg). Lo scorso 28 gennaio il ministro del petrolio Abdel Bari Al-Arousi ha dichiarato: «In un futuro molto prossimo arriveremo a 1,7 mbg». Un livello, dunque, superiore ai volumi precedenti la rivolta, 1,6 mbg. Nelle casse del Governo sono così piovuti quasi 50 miliardi di dollari. Il Pil, crollato del 60% nel 2011 è decollato a +124% nel 2012 , stima l'Fmi, e quest'anno la crescita dovrebbe attestarsi al 17 per cento. Buone notizie, soprattutto per l'Italia, che importa da Tripoli circa il 25% dei suoi acquisti di greggio. E anche per Eni, il primo operatore energetico straniero nel Paese, quasi tornato ai livelli estrattivi del 2010, che rappresentano il 14% circa della sua produzione di petrolio e gas. Per un Paese che vanta le prime riserve di greggio di tutta l'Africa (47 miliardi di barili) e le quarte di gas, il futuro appare roseo. Sicurezza permettendo.
E qui arriva il tasto dolente. Perché sul fronte politico i progressi sono stati, sì, incoraggianti, ma negli ultimi mesi l'ascesa di gruppi estremisti islamici, soprattutto a Bengasi, i rigurgiti indipendentisti della Cirenaica, e i dissidi in seno a un Esecutivo che procrastina le riforme urgenti gettano ombre inquietanti sulla nuova Libia.
Eppure le elezioni politiche tenutesi lo scorso luglio - le prime pienamente democratiche dal 1952 - sono state un successo. Guardando ai precedenti, in Tunisia e in Egitto, il principio di causa ed effetto a cui la primavera araba aveva abituato il mondo - ovvero che le prime elezioni democratiche dopo il crollo dei regimi dovessero sancire il trionfo dei partiti islamici - in Libia non ha funzionato. Si votava per il Congresso nazionale. A sorpresa la Forza delle alleanze nazionali, il movimento "laico" e liberale - per quanto valga la definizione in un Paese molto religioso come la Libia - composto da 60 partiti e guidato dall'ex premier del Consiglio nazionale di transizione, Mahmoud Jibril, ha ottenuto una maggioranza relativa di 39 seggi sugli 80 assegnati ai partiti politici. Il partito Giustizia e ricostruzione, una costola dei Fratelli musulmani, ha deluso, raccogliendo solo 17 seggi.
Certo, nei 120 seggi attribuiti ai candidati indipendenti, la Fratellanza musulmana si è riscattata piazzando molti suoi simpatizzanti. In quell'occasione l'Assemblea doveva anche eleggere un commissione di saggi deputata a scrivere la nuova Costituzione, un passo importantissimo. E lì sono nati i problemi. La Cirenaica ha rivendicato, oltre che un aumento delle rendite petrolifere, un numero maggiore di candidati. Da allora il Paese è rimasto sotto scacco. Un primo Esecutivo è durato solo poche settimane, ne è seguito un altro, formato in novembre e guidato dal premier Ali Zaidan, che deve barcamenarsi fra mille problemi e rivalità. Alla fine si è deciso che sarà la popolazione a eleggere i membri della Consulta. Dopo di che vi saranno elezioni politiche definitive. Ma i tempi si sono dilatati.
In un "quasi vuoto di potere" si sta facendo strada una pericolosa deriva islamista radicale. Soprattutto in Cirenaica. L'attacco contro il consolato americano, in cui è morto l'ambasciatore Chris Stevens, e i seguenti gravi episodi (tra cui l'attentato contro il consolato britannico e contro il console italiano, sempre a Bengasi) sono segnali preoccupanti. Anche perché l'organizzazione di al-Qaeda per il Magreb islamico avrebbe insinuato qualche cellula in Cirenaica. Il movimento estremista libico Ansar al-Saria, sospettato per gli attacchi di Bengasi, non è stato liquidato come aveva promesso il governo Tripoli.
Benché placato il vento secessionista, la Cirenaica, da cui deriva l'80% della produzione petrolifera del Paese, vuole una maggiore autonomia ed emancipazione da Tripoli. Senza contare ancora le milizie che hanno combattuto durante la guerra, molte delle quali non intendono restituire le armi pesanti in mano loro per non perdere potere di contrattazione. Lo spinoso problema della sicurezza sarà arginato soltanto quando saranno create un nuovo esercito e una nuova polizia. Le parole del neo ministro degli Interni, Ashour Shuailm, sono emblematiche «È la sfida politica più impressionante che la Libia ha davanti a sé»

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