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Questo articolo è stato pubblicato il 21 febbraio 2013 alle ore 06:36.

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Nel 1981, in piena era di centralità del debito pubblico nella politica economica, gli investimenti fissi della pubblica amministrazione rappresentavano il 3,5% del Pil. Nel 2013, con 28,3 miliardi di spesa, l'apporto di quel motore pubblico all'economia italiana è dimezzato: 1,8%. Una discesa (e marginalizzazione) durata trenta anni, con due soli momenti di inversione della tendenza di brevissimo periodo.


Nel 2003, subito dopo il lancio della «legge obiettivo» del Governo Berlusconi, quando il rapporto risalì al 2,5% (era 1,7% nel 2002), e nel 2009, sempre dopo l'arrivo di Berlusconi al Governo, quando si passò da 2,2% a 2,5%. Fuochi di fiamma che neanche quei due governi di centro-destra, che avevano fatto delle infrastrutture un punto-chiave del programma di governo, riuscirono a tenere. E lo smottamento di lungo periodo continuerà, nonostante anche l'attuale premier Mario Monti, ora entrato in politica, proclami la necessità di rilanciare gli investimenti pubblici nei prossimi anni (sia pure dopo un'intesa a livello europeo che sottragga la spesa in conto capitale dai vincoli del patto di stabilità): la nota di aggiornamento al Def approvata dal suo Governo lo scorso settembre prevedeva per il 2014 e 2015 un'ulteriore riduzione all'1,7% di questa percentuale. D'altra parte, il Def del suo predecessore - Giulio Tremonti all'Economia - fu ancora più drastico nel prevedere il brusco calo dal 2 all'1,7%, avendo egli largamente teorizzato la necessità di aprire l'era delle «infrastrutture finanziate da privati».
A corollario di questa fotografia occorre solo aggiungere che, mentre la spesa pubblica in conto capitale complessiva è scesa del 18,6% in termini correnti dal 2005 al 2011, a sintetizzare il contributo dato dagli investimenti al risanamento di bilancio, la spesa corrente è cresciuta nello stesso periodo del 18,2%. Nei nove anni dal 2005 al 2013 la spesa per opere pubbliche ha avuto per otto volte un segno negativo (quasi sempre fra -5,5% e -9,7%) e una sola volta, nel 2007, un +0,4% (dati Cresme).
Si parla poco in questa campagna elettorale di opere pubbliche, forse anche perché questo scenario di vincoli e difficoltà di finanziamento è largamente condiviso da tutte le forze politiche e nessuno può fare in questo campo le grandi promesse che circolano magari in materia fiscale. Il più propenso a promettere su questo versante, Silvio Berlusconi, deve fare, d'altra parte, attenzione ad assumere nuovi impegni visto che i recenti rapporti della Camera dei deputati e dell'Autorità di vigilanza certificano che, a oltre dodici anni dall'approvazione della legge obiettivo, le opere completate sono soltanto il 10% del faraonico programma adottato nel dicembre 2001.
La consapevolezza diffusa impedisce fughe in avanti a chiunque e questo forse è un bene. Restano, al prossimo Governo, da affrontare una serie di questioni per cui passa non solo il rilancio di una politica infrastrutturale di lungo periodo, ma la stessa sopravvivenza di un settore economico. Oltre a una seria spending review che sappia tagliare di più la spesa corrente e recuperare risorse per gli investimenti, è necessario completare il traghettamento dall'era del debito pubblico a quella del finanziamento privato di infrastrutture. Aveva cominciato Giulio Tremonti a porre il tema, con la cosiddetta legge «Tremonti infrastrutture», ma poi lui e la sua squadra all'Economia avevano ridotto quelle misure di incentivo fiscale al lumicino, limitandole a un gruppo ristretto di grandi opere filtrate dal Cipe e solo come scambio rispetto a contributi pubblici in conto capitale già assegnati. Alla fine, la manovra è stata letta come operazione di finanza pubblica che faceva rientrare nelle casse dello Stato contributi già concessi.
Il Governo Monti - il ministro alle Infrastrutture Passera e il viceministro Ciaccia in particolare - hanno ripreso quella strada tentando di dargli una sistemazione organica. Hanno riproposto la defiscalizzazione Ires, Irap e Iva per le opere cofinanziate da privati, eliminando alcuni dei vincoli posti da Tremonti, hanno lanciato il project bond, hanno istituito un nuovo credito di imposta. Tentativo nobile, ma sostanzialmente fallito, perché tutti questi strumenti fiscali e finanziari sono stati limitati - anche con l'ultima approvazione delle linee guida sulla defiscalizzazione da parte del Cipe lunedì scorso - alle grandi opere. Il paradosso è visibile con il credito di imposta, limitato alle sole opere di importo superiore a 500 milioni di euro: quasi una norma ad hoc. Il prossimo Governo dovrà riprendere questo capitolo - se avrà un ministro dell'Economia più sensibile ai temi dello sviluppo - potenziando i benefici fiscali e allargandoli alle opere medio-piccole diffuse sul territorio.
Terza priorità da portare a termine - per accrescere quantità e qualità della spesa pubblica - è quella avviata da Fabrizio Barca sui fondi Ue. La riprogrammazione delle priorità infrastrutturali è stata impostata e il ministro ha già avviato il lavoro per il nuovo quadro di programmazione 2014-2020. Non va tradito lo spirito di quel lavoro eccellente e soprattutto è necessario ora portare su questi nuovi standard - anche tramite sanzioni e incentivi - tutte le amministrazioni regionali e locali, le parti sociali, le imprese. In palio ci sono ancora da spendere, con ritmi più rapidi di quelli passati, 31 miliardi della programmazione 2007-2013 e i 59 miliardi per il 2014-2020.
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