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Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2013 alle ore 06:37.

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«Alcuni esponenti della Fed sostengono che questo tipo di politica monetaria possa favorire comportamenti sui mercati in grado di minare la stabilità finanziaria». Nel "burocratese" tipico, queste parole scritte nel verbale dell'ultima riunione della Federal Reserve hanno un significato ben preciso: alcuni esponenti dell'istituzione americana temono che continuare a iniettare liquidità sul mercato possa creare bolle speculative.
Dal 2007 la Fed ha pompato sui mercati quasi 2mila miliardi di dollari freschi freschi, ai quali si aggiungono i 789 miliardi di euro iniettati in cinque anni dalla Bce, i 41mila miliardi di yen della Banca del Giappone e i tanti miliardi delle altre banche centrali del mondo. Trasformando tutto in dollari, in cinque anni di crisi la base monetaria di Europa, Usa e Giappone è aumentata di oltre 3mila miliardi. Ora alcuni esponenti delle banche centrali iniziano a interrogarsi sul futuro: è forse giunta l'ora di rallentare?

Medicina discussa
È fuori di dubbio che queste maxi-iniezioni di liquidità abbiano evitato il peggio negli anni passati. Senza il primo quantitative easing della Fed (cioè quella politica monetaria che consiste nell'acquistare titoli iniettando liquidità), gli Stati Uniti difficilmente si sarebbero ripresi dallo shock di Lehman Brothers. Senza i due finanziamenti Ltro della Bce da mille miliardi di euro, tra la fine del 2011 e l'inizio del 2012, difficilmente l'Europa avrebbe evitato pesanti crack bancari. Ma è anche vero che gli effetti collaterali di queste massicce dosi di "medicinali" monetari rischiano, alla lunga, di superare i benefici. E, soprattutto, di creare una pericolosa assuefazione. Ecco perché alcune banche centrali iniziano ad interrogarsi sul futuro.

All'interno della Fed è apertamente iniziato il dibattito sul proseguimento del quantitative easing. Alcuni esponenti puntano il dito contro i potenziali costi che questa politica monetaria potrebbe comportare. Anche sui mercati finanziari. Alcuni esponenti della Fed (in minoranza) ritengono dunque che il quantitative easing, che attualmente prevede l'acquisto di 85 miliardi di dollari di titoli al mese, vada almeno rallentato.

In Europa la Bce è tradizionalmente più cauta, non solo per uno statuto iper-rigido ma anche per il freno costante messo alle manovre più aggressive da alcuni banchieri centrali. Per di più nel Vecchio continente la liquidità in eccesso si sta già riducendo (non per input della Bce ma perché molte banche hanno restituito in anticipo i prestiti di Francoforte): la liquidità in eccesso parcheggiata presso la stessa Bce si è dunque ridotta dagli 813 miliardi di euro di un anno fa ai 496 attuali.

Ma non tutte le banche centrali si interrogano sugli effetti collaterali della politica iper espansiva. In Inghilterra la Bank of England ha reso noto che nell'ultima riunione 3 esponenti su 9 hanno proposto di ripartire con il quantitative easing. E la Bank of Japan ha annunciato che aumenterà il suo dal gennaio 2014.

Mercati ed economia reale
Il problema è che l'efficacia di queste medicine non è affatto scontata. Prendiamo il primo quantitative easing Usa, quello varato tra il 2008 e il 2009 dopo il crack di Lehman: la Fed pompò sul mercato ben 1.700 miliardi di dollari, ma a fronte di questa valanga di soldi stampati le famiglie americane recuperarono soltanto un terzo della ricchezza persa con la crisi (circa 6mila miliardi di dollari, contro i 17mila bruciati in precedenza). E questo recupero di ricchezza è stato reso possibile solo dal rimbalzo di Wall Street, su cui si concentrò la speculazione.

L'abbondanza di denaro e i tassi bassissimi, infatti, inducono gli investitori a indebitarsi per comprare azioni o obbligazioni ad alto rendimento. I benefici sull'economia reale furono modesti e causati solo dalla speculazione finanziaria. Anche in Europa i maxi-finanziamenti della Bce (Ltro) hanno dato mille miliardi alle banche, ma poche gocce di credito a imprese e famiglie. Insomma: queste operazioni straordinarie servono per evitare il peggio, ma non sono sufficienti per risolvere la crisi. E anzi rischiano di ricreare le stesse condizioni, le stesse bolle, che la crearono.

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