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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2013 alle ore 06:38.

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Il processo attivato con il decreto enti locali per quanto riguarda il pre-dissesto va avanti, con decine di piani presentati da Comuni e Province da anni sull'orlo del default e che oggi, improvvisamente redenti, promettono di diventare virtuose cittadine grazie allo scrupolo di amministratori locali che si convertono a un rigore teutonico.
L'impressione, però, è che molti di questi enti siano abbagliati dalla promessa di un po' di soldi (il fondo di riequilibrio, che tutti richiedono nella misura massima) piuttosto che affetti da una vera voglia di risanamento.
Il disavanzo, prima negato con tutti i mezzi, viene oggi quasi ostentato, pur di avere un po' di liquidità: sembra anzi addirittura che alcuni enti lo abbiano sopravvalutato, nell'aspettativa che ciò assicuri loro un importo superiore di fondo a loro disposizione.
Comunque, visto che una finalità della norma è quella dell'emersione dei problemi, si deve riconoscere il successo che si sta ottenendo, visto il rilevante afflusso di richieste e di piani di riequilibrio.
I problemi nascono però proprio in merito alle soluzioni contenute nei piani di rientro per rimediare agli stati di disequilibrio di cui si palesa l'esistenza.
Leggendo i piani di riequilibrio presentati, infatti, si resta stupiti da progetti estremamente sintetici, che in più di un caso mostrano rilevantissimi problemi di attuazione.
In fondo tutti gli stati di crisi dipendono da pochi e banali fattori: il primo è che si incassa 100 e si spende 120 o 130, a volte perfino 200. Il secondo è la presenza di una macchina organizzativa che non ha sufficienti anticorpi, o perfino la capacità gestionale e amministrativa, per impedire che ciò accada.
Il problema, però, è che pare difficile immaginare che chi ha condotto un ente quasi al default sia ora in grado di risanarlo, soprattutto dal punto di vista delle strutture dirigenziali che guidano la macchina burocratica.
Non si entra sulla realizzabilità delle entrate, abnormi, previste da Comuni che non hanno mai incamerato un euro ma che promettono oggi di accertare (e si immagina, di incassare) milioni di euro, tema approfondito nell'articolo pubblicato qui sopra.
Quello che sconcerta sono le promesse di riduzione dei costi, che in alcuni casi sono praticamente inesistenti ed in altri talmente draconiane da avere l'attendibilità del giuramento di mettersi a dieta di un uomo colpito da bulimia nervosa.
Le riduzioni proposte, in verità, molto dipendono dalla normale messa a riposo del personale, che viene puntualmente quantificato. Si tace però sulle riassunzioni o, comunque, non se ne misura l'impatto, quasi questo fosse un dettaglio. Eppure si tratta di un elemento non solo di credibilità del piano, ma perfino di sopravvivenza dell'ente.
Si assicura poi una riduzione degli affitti, promettendo di trasferire gli uffici in immobili di proprietà (e perché non si è fatto prima? E con quali soldi si ristrutturano?). Ancora, si ritiene di ridurre gli oneri finanziari, vendendo patrimonio e cessando di assumere mutui, cosa opportuna, ma si tace sugli investimenti. Davvero è pensabile un blocco della spesa in infrastrutture in territori già spossati dalla crisi?
Molti piani, infine, prevedono una forte riduzione dei contratti di servizio stipulati con le proprie società partecipate. Fatto curioso, soprattutto se queste sono in perdita, o come accade in molti casi sono in attesa del saldo dei loro crediti verso il Comune da anni.
Davvero si può pensare a riduzioni importanti di tali voci senza portare al fallimento le società e magari affermando di voler garantire i servizi?
In sostanza, spesso i piani hanno caratteristiche comuni e tutte tali da consentire una facile profezia: anche se verranno approvati non saranno mai realizzati.
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