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Questo articolo è stato pubblicato il 25 febbraio 2013 alle ore 12:27.

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John Kerry (LaPresse)John Kerry (LaPresse)

Battezzato come il "tour dell'ascolto", l'esordio del nuovo segretario di Stato americano John Kerry è già una corsa ostacoli in presa diretta con la realtà europea e soprattutto mediorientale. Ci sono due conflitti in corso che stanno occupando la comunità internazionale, il Mali e la Siria. Nel primo gli Stati Uniti hanno deciso di partecipare inviando in Niger un contingente militare con i droni per dare manforte alle truppe francesi e africane impegnate in una battaglia dagli esiti ancora incerti contro le formazioni jihadiste e legate ad Al Qaida.

Ma il dossier più spinoso è la Siria. In queste ore la diplomazia araba ed europea sta tentando di convincere l'ala politica dell'opposizione, rappresentata da Moaz al Khatib, a partecipare alla riunione di Friends of Syria, gli Amici della Siria, prevista a Roma giovedì 28: se gli oppositori persisteranno nel rifiuto, questo verrà percepito come una sorta di schiaffo proprio al neo-segretario di Stato e all'Occidente, accusati di non fare nulla per abbattere il regime di Bashar Assad.

La Siria per gli Stati Uniti è un dilemma che divide non soltanto la comunità internazionale ma anche Washington. Che fare? Da una parte l'America, che si è trovata a sostenere i Fratelli Musulmani in Tunisia ed Egitto contro i vecchi Raìs alleati degli Stati Uniti, deve difendere i principi democratici e quindi schierarsi contro Assad, dall'altra si preoccupa di salvaguardare i suoi interessi strategici: Washington teme una caduta rovinosa del regime con effetti negativi su Israele, un'ascesa delle formazioni islamiche più radicali e si interroga sul destino delle armi chimiche del regime che potrebbero cadere in cattive mani.

Il vicepresidente americano Joe Biden ha detto recentemente al presidente Giorgio Napolitano che «gli Stati Uniti non vogliono assolutamente essere coinvolti in un nuovo Iraq». Lo stesso Barack Obama aveva frenato il predecessore di Kerry, la signora Hillary Clinton, favorevole a rifornire di armi i ribelli.

Si profilano delle differenze, sottolineate dalla stampa americana, tra Kerry e la Casa Bianca: Obama ha come priorità riportare a casa i soldati dall'Afghanistan - dove Karzai infuriato ha appena chiesto il ritiro delle truppe speciali Usa dalla provincia di Wardak, la porta di Kabul - e di chiudere se possibile la guerra al terrorismo iniziata da Bush Junior; Kerry vorrebbe la ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi nel tentativo di raggiungere un accordo tra le parti. Il segretario di Stato aspira a lasciare un segno nella storia: obiettivo comprensibile in un ex candidato alla presidenza (fu sconfitto da Bush jr. nel 2004) ma assai ambizioso in un contesto sfavorevole.

Questa non appare la priorità del momento e neppure di Israele: Obama si recherà il 4 marzo nello stato ebraico e il primo ministro Benjamin Netanyahu ha già fatto sapere che al primo punto dei colloqui ci sarà il dossier dell'atomica di Teheran. Domani riprendono in Kazakhstan i negoziati sul nucleare tra il 5+1 e l'Iran: le indicazioni della vigilia - con l'annuncio dell'istallazione di nuove centrifughe nell'impianto di Natanz - suggeriscono ben poco ottimismo perché gli iraniani hanno intenzione di trascinare la comunità internazionale in trattative estenuanti che, salvo sorprese sempre possibili, non dovrebbero concludersi prima delle controverse elezioni presidenziali di giugno.

In questo tour dell'ascolto, nel quale oltre ai leader europei vedrà anche quelli arabi del Golfo e il collega russo Lavrov, Kerry si renderà conto che gli Stati Uniti sono chiamati a prendere decisioni in tempi brevi. O credono davvero che sia possibile, come ritengono i russi, un negoziato con Damasco per fermare il massacro o si troveranno in gravi difficoltà con i loro stessi alleati che sostengono la guerriglia: dalla Turchia al Qatar, dai vari stati arabi del Golfo all'Egitto, dai francesi alla Gran Bretagna che propone da tempo di togliere l'embargo delle armi per appoggiare l'offensiva anti-Assad.

Insomma si deve decidere della pace e della guerra in una regione dove il conflitto siriano è da due anni una sorta di conflitto per procura che vede schierato il mondo sunnita contro quello sciita capeggiato dall'Iran. Gli effetti della destabilizzazione regionale sono già visibili nel Libano degli Hezbollah ma potrebbe estendersi presto a tutti gli stati confinanti. Benvenuto sulla sponda Sud, signor Kerry, dove tra caos politico e inarrestabili processi di disgregazione la primavera araba è sfiorita da un pezzo.

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