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Questo articolo è stato pubblicato il 02 marzo 2013 alle ore 08:15.

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L'Europa trae da lungo tempo molto conforto dall'esempio americano, ma alcune riflessioni si impongono. Oggi chi segue chi?
In senso lato è e sarà ancora a lungo l'Europa a seguire, se non l'esempio, la leadership americana perché quella primogenitura occidentale che si è trasferita a New York e poi Washington tra il 1919 e il 1945 non tornerà mai indietro. Non in questo secolo, almeno.

Ma nello specifico della situazione economica attuale, dominata dalle conseguenze della grave crisi finanziaria del 2007-2008 diventata per tutti crisi economica, è ora l'America che sta seguendo l'approccio europeo. Che è quello, esecrato, combattuto, ma non facilmente eludibile, dell'austerità. Purché di austerità non si muoia.
L'ultimo modello made in Usa che l'Europa ha potuto alla fine seguire, con fatica, lo ha offerto la Federal Reserve, con i suoi massicci interventi di acquisti di titoli del debito pubblico e immobiliari. Per la Bce non è stato semplice adottare interventi in parte analoghi, e comunque rilevanti, date le difficoltà istituzionali. Mario Draghi alla fine cinque mesi fa ci riusciva. Ma come sempre ha detto, si tratta di interventi di emergenza che sorreggono il debito pubblico ed evitano il panico. Hanno come contropartita una politica di bilancio rigorosa. Ma anche per questo non garantiscono la crescita.

L'Europa infatti non cresce. L'America non cresce, dopo tre anni di crescita asfittica e un solo anno, i 12 mesi successivi alla fine della recessione nel giugno 2009, con un Pil che marciava a ritmi paragonabili a quelli tipici delle fasi post-recessive, piuttosto sostenuti. Poi una media triennale deludente inferiore al 2% nominale, certo invidiabile se vista dalla terra bruciata italiana. Ma ora siamo a crescita zero, con un mercato del lavoro pressoché immobile negli ultimi quattro anni e che ha registrato un saldo positivo per un soffio - 28mila posti - tra l'impiego creato dal settore privato e quello perso nel settore pubblico, statale, che due anni e più va avanti con bilanci di austerità.

Quella stessa austerità che ora, con il sequester in vigore da ieri, colpisce anche la spesa federale e che già si è fatta sentire, anticipando i tempi, soprattutto sul Pentagono, nell'ultimo trimestre 2012, finito anche per questo con un Pil a crescita negativa, sia pure di un soffio. Americani ed europei, superata con l'inverno 2009 la fase di grave emergenza, hanno seguito all'inizio due strade diverse in risposta alla crisi finanziaria.

Obama ha privilegiato il sostegno al settore privato che poi è stato in realtà, a parte il caso, importante, dell'auto, un sostegno soprattutto alle banche, più a Wall Street insomma che a Main Street, come ampiamente testimonia la pubblicistica americana di questi ultimi quattro anni. Obama è stato rieletto, anche, perché era evidente che lo sfidante Mitt Romney sarebbe stato ancora più sensibile ai desiderata dell'alta finanza.

L'Europa dell'euro, a parte vari massicci interventi di vari governi nazionali per salvare banche, grandi e non, pericolanti, ha puntato soprattutto alla tenuta dei bilanci pubblici, mentre gli Stati Uniti il debito federale correva, molto più che in Europa. Per un anno, dalla primavera 2009 a quella 2010, Washington spendeva infatti liberamente. Poi sempre meno, in realtà, con il deficit che si è mantenuto a livelli più che doppi rispetto a quello medio dell'area euro non tanto per la spesa, ma per il calo del gettito. A ben vedere quindi Washington sta entrando adesso ufficialmente in una politica di austerità di fatto già adottata da tempo, e che sarebbe scattata anche senza il sequester: quest'ultimo infatti è l'automatismo della disperazione innescato in mancanza di un accordo, che finora non c'è, su tagli della spesa e diminuzione delle tasse, con Obama pronto a una riforma (tagli) dello stato sociale (pensioni e sanità pubbliche), ma solo se ci saranno più imposte per i ceti medio-alti. L'austerità quindi, parola che negli Stati uniti piace ancora meno che in Europa perché sembra la negazione del concetto stesso di America, ci sarebbe comunque, con o senza sequester.

Secondo Laura Tyson, economista a Berkeley e già capo dei consiglieri economici di Bill Clinton, è dal 2010 che «anche senza il sequester la spesa pubblica reale pro capite è scesa sotto Barack Obama mentre era aumentata sotto ogni altro presidente da Nixon in poi». La realtà del debito si impone. Ogni giorno nell'anno solare 2012 Washington ha creato nuovo debito, in media, per 3,3 miliardi di dollari, per tre quarti circa coperto indirettamente dalla Fed, ormai più della Cina ancora massimo creditore del Tesoro. Le previsioni attuali sono migliori, ma finora nei primi 57 giorni del 2013 la creazione di nuovo debito, a tutto il 26 febbraio, è stata in media di 3,2 miliardi al giorno. «Quanto è grosso il nostro debito nazionale?» si è chiesto nei giorni scorsi il Washington Post. Molto grosso, e ben oltre il circa 105% del pil comunemente valutato oggi, è la risposta del WP. Che prende in considerazioni voci spesso ignorate, non tutte preoccupanti in tempi normali, ma che potrebbero diventarlo, e continua stranamente ad ignorare i circa 3 mila miliardi dei debiti statali e locali, che i paesi dell'euro invece per legge (Maastricht) conteggiano. In realtà si può dire che il vero debito americano, valutato all'europea, viaggi attorno al 140 per cento, non certo meno.

Ed è per questo che Washington, dopo avere così tanto indicato nell'Europa dei bilanci sotto osservazione un modello negativo e miope, si è messa su questa stessa strada. Speriamo per poco tempo.

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