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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2013 alle ore 12:11.

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Ora, come dicevo, in attesa di entrare nel prossimo conclave per l'elezione di un nuovo successore di Pietro, quando ogni mia testimonianza sarà esclusa secondo le norme della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, emessa da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, vorrei evocare sinteticamente il più famoso atto di rinuncia che la storia ci ha consegnato. Altri eventi simili sono più confusi e oscuri o non ben documentati: è, ad esempio, il caso di Gregorio XII che rinunciò nel 1415, in un periodo particolarmente turbolento per la Chiesa con la presenza di vari antipapi.
Che l'atto sia possibile è contemplato anche nel l'attuale Codice di diritto canonico, promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983. Il canone 332, al paragrafo 2, recita infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente (rite) manifestata, non si richiede invece che qualcuno (a quopiam) la accetti».
Anche a prescindere dalle dispute sull'interpretazione del passo dell'Inferno dantesco (III, 59-60) ove in scena è «l'ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», certo è che la figura di Pietro di Angelerio, molisano, nato attorno al 1209-10, asceta del monte Morrone, fondatore di una congregazione di eremiti, rimane nella memoria di tutti per la sua vicenda così originale. Dopo la morte di Niccolò IV nel 1292, i pochi cardinali si riunirono in conclave prima a Roma, poi a Perugia, per un paio d'anni, con interruzioni e senza esito per contrasti interni. Alla fine – su impulso anche del re Carlo II lo Zoppo d'Angiò – elessero all'unanimità proprio l'eremita Pietro del Morrone. Il 28 luglio 1294 faceva il suo ingresso a L'Aquila a dorso di un asino, come Gesù a Gerusalemme, sceglieva il nome di Celestino V, forse per ragioni simboliche (legame con le uniche sue forze, quelle celesti) e il 29 agosto veniva consacrato papa di Roma, sempre a L'Aquila.

Un'altra figura mistica di alto profilo come Iacopone da Todi lo ammonì subito sui rischi inerenti a un ufficio così elevato e oggetto di contese. La semplicità del monaco, gli intrighi politici ed ecclesiastici, l'incombente presenza del cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, ben presto gli crearono una situazione difficile, nonostante la popolarità di cui godeva, e così egli maturò la decisione di dimettersi. L'atto formale di rinuncia avvenne a Napoli, ove si era trasferito, davanti ai cardinali, il 13 dicembre 1294, dopo un papato di soli cinque mesi e nove giorni. Depose i paramenti pontifici, indossò la tonaca grigia dei suoi eremiti e, dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1294, il conclave eleggeva Bonifacio VIII che si sarebbe poi sempre premurato di controllare il suo predecessore a tal punto da riprenderlo dai vari eremi ove si rifugiava e condurlo in un edificio accanto al palazzo papale di Anagni ove era la corte pontificia. Alla fine, però, lo riportò a Castel Fumone, presso Ferentino, ove il 19 maggio 1296, a 87 anni Pietro si spegneva. Le sue spoglie, nel 1327, furono traslate nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L'Aquila, una chiesa da lui fondata, ove ancor oggi riposano nel sontuoso mausoleo eretto da Girolamo da Vicenza nel 1517 su committenza dell'Arte della Lana aquilana. Ma anche le spoglie mortali di questo papa avranno una loro tormentata storia. Tra le numerose vicissitudini, basterà qui ricordare il trafugamento della salma nel 1988, ritrovata qualche giorno dopo, e il terremoto dell'Aquila del 6 aprile 2009 che provocò il crollo della volta della Basilica di Collemaggio proprio sul suddetto mausoleo. La fama, legata anche ai miracoli e alla sua vicenda umana ed ecclesiale, portò presto Celestino V sugli altari: il 5 maggio 1313 il papa francese Clemente V lo canonizzava e da allora la sua figura diveniva il modello di una Chiesa più spirituale e povera. Petrarca lo aveva esaltato come un grande testimone della "vita solitaria" e della purezza celestiale.

A lui si riferirà esplicitamente Ignazio Silone nel suo romanzo-saggio Avventura di un povero cristiano (1968), adattato poi a testo teatrale (1969), celebrazione di un cristianesimo primordiale e pauperistico. Per certi versi anche il film Habemus papam di Nanni Moretti (2011) può ammiccare a questo personaggio alonato di leggenda, ma nello stesso tempo di luce spirituale.

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