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Questo articolo è stato pubblicato il 04 marzo 2013 alle ore 11:18.

Anna Maria Fiorillo (Imagoeconomica)Anna Maria Fiorillo (Imagoeconomica)

Appuntamento cruciale, questa mattina, al processo Ruby. Il Tribunale di Milano ha chiamato un teste-chiave, Anna Maria Fiorillo, la Pm dei minori raggiunta al telefono la notte del 27 maggio 2010 dai funzionari della Questura per sapere se affidare Karima El Marough (in arte Ruby) - fermata per furto - alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti, come insisteva Silvio Berlusconi e come poi avvenne (di qui l'accusa di concussione all'ex premier). «Non ricordo di aver autorizzato l'affidamento» scrisse la Fiorillo il 29 ottobre 2010, quando il suo capo della Procura le chiese di ricostruire quella notte. Ma su quel «non ricordo» - spiegato anche in un documento ufficiale consegnato al Csm il 4 gennaio 2011 - è stata costruita un'immagine bifronte di donna e di magistrato, reticente, al limite dell'affidabilità.

Un'immagine estranea alla realtà. Così è se vi pare, insomma, e così doveva apparire la Fiorillo, divenuta solo ora testimone «decisivo» del processo, come ha scritto il Tribunale il 27 gennaio scorso, nell'ordinanza con cui l'ha chiamata oggi a testimoniare, prima di chiudere il dibattimento. Nessuno - né la Procura né la difesa - ha mai ritenuto di sentire dalla sua viva voce come siano andati i fatti, sebbene dalla sua ricostruzione dipendano molte bugie e verità raccontate finora, dentro e fuori il Tribunale. Non solo. Quando ha tentato ristabilire la verità nelle sedi istituzionali, è addirittura finita sotto procedimento disciplinare: rinviata a giudizio dalla Procura generale della Cassazione a ottobre 2012, sarà giudicata dal Csm il 15 marzo, proprio a ridosso della sentenza-Ruby, prevista per il 18. L'ennesimo paradosso, che rischia di gettare su questa donna (e sulle sue parole) un'altra ombra, tanto ingiusta quanto funzionale a interessi trasversali ben più oscuri di quel suo «non ricordo».

Ansia di verità, bisogno di trasparenza, difesa della dignità personale e professionale - tutto ciò che ha animato la Fiorillo - dovrebbero essere valori condivisi. Ma alla vigilia dell'8 marzo - quando il rito della festa consente graziosamente alle donne di essere protagoniste per un giorno - vale la pena chiedersi se questa vicenda umana e professionale non sia anche il riflesso di una specificità femminile restia ad essere imprigionata dentro schemi maschili (compreso il linguaggio) e perciò considerata "aliena". Se quei valori fossero condivisi, i fatti avrebbero avuto ben altro svolgimento. La Fiorillo sarebbe stata subito ascoltata nelle sedi istituzionali - Procura, Tribunale, Csm - mentre nessuno lo ha fatto. Salvo il Tribunale, dopo due anni e al termine di una lunga istruttoria dibattimentale in cui sono stati sentiti tutti, compresi i funzionari della Questura: dall'allora capo di gabinetto Piero Ostuni (poi promosso a prefetto) fino alla giovane commissaria Giulia Iafrate, che nell'aprile scorso ha sostenuto di essere stata autorizzata all'affidamento proprio dalla Fiorillo. Uno sviluppo processuale grottesco, divenuto tragico con l'iniziativa disciplinare scattata quando lei reagì alle dichiarazioni rese in Parlamento il 9 novembre 2010 dall'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, secondo cui Ruby fu affidata alla Minetti «sulla base delle indicazioni del magistrato». «Quel che ha detto il ministro non corrisponde alla mia diretta esperienza» protestò, mai pensando che la trasparenza si sarebbe trasformata nell'accusa di aver «violato il dovere di riserbo».

Sessant'anni, in magistratura dal '98, la Fiorillo è figlia di un giudice. Chi la conosce la considera una «calvinista» per quel rigore morale e quell'ansia di verità che dovrebbero accomunare uomini e donne ma che si sono trasformati in un boomerang quando ha osato uscire dall'ambiguità cui l'avevano condannata e ha scelto la "scomodità" della trasparenza. L'ambiguità trasforma il verosimile in vero e aveva trasformato il «non ricordo di aver autorizzato l'affidamento alla Minetti» in reticenza, instabilità o, nella migliore delle ipotesi, in vuoto di memoria, riempito con versioni verosimili, neppure riscontrate. Così come la sua «insopprimibile necessità» di spiegare è stata trasformata in violazione del dovere di riserbo. Eppure, in gioco c'era il rischio di apparire un magistrato poco scrupoloso, credulo verso la notizia inverosimile che Karima El Marough, accusata di furto e allontanatasi da una comunità, fosse realmente la nipote di Mubarak, addirittura compiacente verso soluzioni contrarie alle norme e alle prassi.

Forse anche le tre donne che compongono il Tribunale sono animate dalla sua stessa ansia di trasparenza, da cui passa la credibilità delle istituzioni. Perciò domani l'ascolteranno con rispetto. In ogni caso, la verità della Fiorillo è già contenuta in un documento ufficiale, quello consegnato al Csm a gennaio 2011, archiviato in gran fretta con la pratica a tutela, con cui chiedeva rispetto per il proprio onore professionale e di tutta la magistratura.

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