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Questo articolo è stato pubblicato il 06 marzo 2013 alle ore 13:42.

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La linea di demarcazione non è tanto (non è più) tra bersaniani e non. Ma tra chi è anche disposto a tornare in tempi rapidi alle urne (a giugno o ottobre) e chi ritiene invece che si debba fare di tutto per evitarle. Il Pd è al bivio. Sul segretario e candidato premier del centrosinistra grava il peso della sconfitta e, come avviene in questi casi, c'è voglia di scrollarselo di dosso. Non è un caso se negli ultimi giorni una platea vasta di big del partito abbia fatto capire, anche pubblicamente, di non essere disposto al "o governo Bersani, o elezioni" che invece i fedelissimi, i cosiddeti giovani turchi guidati da Stefano Fassina e Matteo Orfini, continuano a sostenere a spada tratta.

La strana convergenza tra D'Alema e Veltroni
I nomi dei «dialoganti» sono roboanti, soprattutto perchè mettono assieme personaggi di primo piano da sempre avversari. Due su tutti: Veltroni e D'Alema, che pur con approcci differenti mostrano diponibilità ad un governo non a guida Bersani. Ma anche e soprattutto Matteo Renzi,. Il sindaco di Firenze è giunto alla direzione del partito preceduto dall'eco ancora forte del suo faccia a faccia di ieri con Mario Monti a Palazzo Chigi e dell'intervista serale a Ballarò. Ha ascoltato Bersani e poi sorprendendo tutti si è alzato e ha lasciato la sede del Pd senza rilasciare dichiarazioni. Un modo plastico per lasciar intendere a tutti, dentro e fuori il partito, che vuole rimanere estraneo ai giochi di queste ore. Renzi la sua partita vuole giocarsela in solitaria. Che poi trovi molti alleati al suo fianco è scontato. Il dopo Bersani è già cominciato e molti di quelli che si erano dichiarati antirenziani ai tempi delle primarie, sono ormai pronti ad offrire il proprio sostegno al sindaco di Firenze.

Il passaggio di testimone
Il discrime tra pro e contro l'aut aut di Bersani sono le elezioni anticipate. Veltroni le definisce una «follia» e rilancia il governo del Presidente o di scopo. Anche D'Alema è su questa lunghezza d'onda tant'è che, citando Gramsci, invita il partito a uscire dal complesso dell'inciucio. Ma le resistenze dell'ex premier così come di Veltroni sono anche quelle di alcuni esponenti che un tempo avremmo definito «miglioristi» (la corrente dell'ex Pci guidata dall'attuale Capo dello Stato Giorgio Napolitano) e che più di recente erano stati annoverati fra i «montiani», come Umberto Ranieri e Magda Negri, che nel corso della direzione hanno criticato apertamente la linea del segretario. La sensazione è che si stia solo attendendo la verifica del fallimento della proposta di Bersani, nonostante l'appoggio ottenuto dalla Direzione, per voltare pagina. Le differenze interne - al di là del generale e generico «mai» con Berlusconi - sono ormai palesi e coinvolgono anche quella parte di bersaniani, come ad esempio Enrico Letta che più volte ha già ribadito il «no» al voto anticipato. La pensa così anche Beppe Fioroni, che oggi peraltro parla del sindaco di Firenze come di «un uomo fondamentale per il partito» mentre fino a qualche mese fa lo apostrofava come «l'irresponsabilità che si traveste da novità». Per non citare i renziani della prima ora come Ivan Scalfarotto, Paolo Gentiloni, Giorgio Tonini o il sindaco di Reggio Emilia e presidente dell'Anci Graziano Delrio.

Si sfila anche Vendola
E perfino, sul fronte opposto, a sinistra del Pd: Niki Vendola. Il leader di Sel, che fino a qualche giorno fa ripeteva "o governo con i cinque stelle o voto anticipato" . Negli ultimi giorni si è mostrato molto più cauto e aperto ad ulteriori opzioni. Anche il leader di Sel ha convenuto che la prima mossa spetta a Bersani, subito dopo però ha aggiunto - al pari di Renzi o di Veltroni - che sta nelle prerogative del Capo dello Stato la decisione finale. Questo significa che anche Vendola non esclude un governo alternativo a quello a guida Bersani.

La paura del voto anticipato
Ai timori legittimi e comprensibili dei rischi per un'Italia priva di un governo stabile e capace di garantire le riforme, si sommano probabilmente le paure - altrettanto legittime - degli effetti che il ritorno al voto potrebbe provocare sulla carriera politica dei singoli e sulle stesse forze politiche. Ovvio che non vale solo per il Pd o per Sel. Ma certo tra alcuni big democratici c'è la consapevolezza che il ritorno al voto, magari con l'avvento del «rottamatore» Renzi, potrebbe definitivamente cancellare dall'organigramma del partito e dalle liste parlamentari molti di loro.

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